Archivio | giugno, 2011

La “svolta rosa” del ‘Jew York Times’

30 Giu

LA “SVOLTA ROSA” DEL ‘JEW YORK TIMES’

 

–         di Dagoberto Bellucci

 

 

“Il noto miliardario, fabbricante di automobili, Henry Ford presidente, C.J. Ford vice-presidente ed E.B. Ford segretario tesoriere della società editrice del giornale “Dearborn Indipendent” , hanno (agosto 1920) ufficialmente dichiarato di accettare l’intera responsabilità della pubblicazione di tre articoli antisemiti pubblicati dal giornale stesso. I tre articoli – che hanno eccitato il furore del ghetto americano padrone di Wilson e di tanti altri – trattavano di questi temi: 1) il problema ebraico nel mondo e l’Internazionale ebraica; 2) la resistenza della Germania al dominio ebraico; 3) l’ebreo negli Stati Uniti. Lo scrittore mostrava la piovra ebraica che ha ghermito enormi e sanguinosi profitti di guerra, ed accaparrato i posti dirigenti della vita sociale. La Germania lottava disperatamente per districarsi dai tentacoli di quella piovra che aveva piazzato ai ministeri gli ebrei Haase, Landsberg, Kautsky, Cohen, Herzfeld; a capo delle finanze, Schiffer e Bernstein; agl’interni Preuss e Freund; al servizio stampa (propaganda e censura) Fritz Max Cohen dell’ebraica “Frankfurter Zeitung”. Infine l’autore studiava la piovra ebraica negli Stati Uniti con tre milioni e mezzo d’ebrei, dei quali più che uno e mezzo a New York.

Quasi tutta la proprietà immobiliare della metropoli è in loro mano. Essi sono padroni assoluti delle industrie aziendali teatrali e cinematografiche, delle industrie dello zucchero e del tabacco, di più che metà dell’industria delle conserve di carne, di più che il 60 per cento dei calzaturifici, di tutta la industria d’abiti confezionati, delle case editrici musicali, della gioielleria, del commercio granario e cotoniero, delle fonderie del Colorado, della stampa e delle sue agenzie, delle banche di prestito e commercio…Insomma essi sono “dietro” a tutta la forza vitale del paese. Ed il “Dearborn Independent” concludeva: “L’ebraismo è il potere più fortemente organizzato della terra…Esso forma uno Stato che può contare sulla illimitata devozione dei suoi cittadini in qualsiasi paese, in qualsiasi condizione e fortuna essi si trovino.”.”

 

( Giovanni Preziosi – articolo “Potenza ebraica in America” – da “La Vita Italiana” del 15 Aprile 1921)

 

 

 

 

    La storia dell’ebraismo è ‘zeppa’ di figure femminili che sono riuscite a metabolizzare alcuni dei tratti ‘antropologici’ dell’ebraicità: un nome per tutte quello della “regina” Esther per la quale, annualmente, i giudei dei quattro angoli del pianeta celebrano in pompa magna la “festa” del Purim (che nell’entità criminale sionista denominata “Israele” assume i contorni di una sorta di gioioso carnevale…gli ebrei si ‘divertono’ così… ricordando stragi e mattanze compiute dai loro avi…secondo la ‘leggenda’ sarebbero stati almeno 80mila fra arabi e persiani passati a fil di spada dall’autorità imperiale persiana su sobillazione della sgualdrina ebrea divenuta, grazie alla complicità dello zio Mardocheo, la “regina” di Persia).

 

    Le donne hanno sempre giocato un ruolo attivo all’interno delle comunità ebraiche e sono davvero molti gli esempi al femminile di quell’arte non esclusiva degli ‘eletti’ di Sion che è il malaffare, il raggiro, il tradimento, la cupidigia, l’inganno…si ‘dice’ del resto che le femmine di ogni latitudine, razza o ‘religione’ ne siano abbondantemente ‘esperte’…le ebree evidentemente hanno unito i due fattori (quello razziale a quello sessuale): una miscela a dir poco esplosiva.

 

    Tant’è dobbiamo riconoscere anche un certo, innegabile, ‘fascino’ (…il fascino dell’orrendo…) quando parliamo di femminilità ebraica ed anche di un altrettanto ingannevole ‘carattere’ tipico nelle femmine ebree di ieri e del presente. Un po’ come racconta Aliza Lavie che nel suo “Le preghiere della donna ebrea” scrive: “Alla vigilia dello Yom Kippùr del 2002, ho letto su un giornale un’intervista con Chen Keinan, una donna che aveva perso la sua bambina Sinai, e sua madre Ruthi Peled, in un attacco terroristico in un centro commerciale di Petach Tikva, Israele. In un istante, Chen era diventata sia una madre privata della figlia, sia un’orfana. Dopo l’attacco, Chen e suo marito, Lior, hanno lasciato Israele e si sono trasferiti negli Stati Uniti. Questa intervista, lo sentivo, era un addio alla società israeliana. Chen era incapace di contenere il panico; restare nel paese dove aveva subito la perdita di ciò che aveva di più prezioso al mondo, era diventato troppo difficile da sopportare.

    L’articolo mi aveva scioccato e aveva provocato in me un miscuglio di emozioni burrascose. Il panico e la disperazione di Chen, il suo grido dal profondo del cuore mi avevano lacerato, lasciandomi perplessa e schiacciata dalle domande. Volevo abbracciarla; volevo offrirle parole di conforto, rafforzare il suo spirito. Quando più tardi mi sono recata alla sinagoga per il Kol Nidrè, non riuscivo a pregare. Le parole del libro di preghiere mi sfuggivano. Il poco che ero riuscita a leggere era bagnato dalle mie lacrime. I pensieri si rincorrevano nella testa e mi trasportavano fuori dalla sinagoga, oltre i muri e attraverso i confini del tempo. Pensavo alle molte donne ebree nel corso della storia che avevano subito perdite simili a quella di Chen ed erano rimaste forti. Volevo raccontare a Chen di queste donne, i cui meriti sono conservati in eterno dal Creatore; donne come le nostre matriarche Sara e Rachele. Volevo raccontarle di Elishèva, figlia di Aminadàv, che perdette i suoi figli Nadàv e Avihù; di Ruth la moabita; e di Glückel di Hamelin. Volevo trasmetterle la forza e il coraggio delle donne ebree in Italia; dirle della mia stessa nonna, Hannah Mashiah, che era emigrata da Buchara dove era una donna rispettata, benestante e che aveva sopportato il lutto e la povertà nella Terra Promessa: aveva dato alla luce nove figli ma, già a trentasei anni, ne aveva persi tre ed era vedova. Avrei sussurrato a Chen che la fede incrollabile e risoluta di mia nonna e la sua partecipazione alle funzioni religiose tre volte al giorno, ogni giorno, tutto l’anno, erano il fondamento del mio stesso profondo legame con l’ebraismo. Mentre stavo lì, in piedi in sinagoga, combattendo con le domande di Chen e rendendomi conto che il libro di preghiere che avevo in mano non avrebbe potuto fornirmi le risposte, mi sono decisa a cercare il segreto dell’eredità di mia nonna ed esplorare la fede, eterna e potente, delle donne ebree.” (1)

     Al di là della ‘piagnucolante’ lamentela iniziale relativa alla contabilità cimiteriale dei ‘caduti’ di parte del pluri-decennale conflitto arabo-israeliano che oppone il lucido fanatismo dei combattenti per la liberazione della Palestina alla sbirraglia terroristica sionista e ben oltre il significato stretto delle considerazioni che l’autrice sottintende citando l’episodio che apre la prefazione al suo volume possiamo semplicemente ricordare ai sionisti di ogni angolo del pianeta che con molte probabilità non sarebbero obiettivi militari tutti i cittadini ebrei presenti nella Palestina storica se – nella primavera del 1948 – con una decisione unilaterale che andava contro gli stessi mandati delle Nazioni Unite, contro il diritto internazionale stabilito dalle stesse istituzioni sovranazionali più o meno direttamente controllate e comunque ispirate ad una visione internazionalista d’impronta giudeo-massonica ed infine contro qualsivoglia logica di tolleranza e civile convivenza – i palestinesi non fossero stati radicalmente spogliati delle proprie terre, cacciati dalle loro case e costretti ad emigrare come ‘appestati’ per tutto il resto del mondo arabo dalle azioni della banditaglia sionista.

     Non ci si venga a ‘raccontare’ la ‘fola’ della “terra senza popolo” e del “popolo senza terra” tanto cara agli ambienti sionistici internazionali: che la Palestina sarebbe diventato un focolare di sangue e terrore una volta insediatisi i primi accampamenti giudaici era chiaro fin dalla fine del XIXmo secolo quando cominciarono le rivendicazioni faziose e arroganti del messianismo ebraico d’impronta religiosa che si sarebbe ben presto saldato, conciliandosi in un mix di criminalità e cinismo odiosi quanto ipocriti, al nazionalismo sionista che avrebbero portato rapidamente alla colonizzazione ebraica della Terrasanta.

    Dei morti ammazzati di razza ebraica ci interessa ‘poco’:  rimanessero, gli ebrei, nei paesi d’origine e certamente avrebbero meno ‘problemi’ anziché prolungare quella lenta ma inesorabile agonia che – un giorno o l’altro – vedrà scomparire inghiottito dalla marea araba il loro Stato-pirata.

    In ogni ‘caso’ abbiamo avuto anche l’opportunità di apprezzare – molto più di quanto non ‘sembri’ – la dirompente apparizione forumistica di una ‘gentile’ (…si fa per ‘dire’…) rappresentante del “popolo eletto”….al di là delle ‘apparenze’ (ingannevoli quanto una bella femmina) non lesiniamo di riconoscere ad Arba una sua ‘funzione’… ‘Meglio’ comunque di tanti – veri o presunti – camerati.

    Ma lasciamo ‘memorie forumistiche’ più o meno ‘passate’ e occupiamoci della cronaca che ci riporta al presente con una notizia passata relativamente sottobanco o, per essere più corretti, ‘silenziata’ dall’enfasi ‘rosa’ con la quale è stata ‘passata’ agli “animaletti parlanti” (… ‘rileggetevi’ cosa ‘dice’ in proposito di noialtri ‘Goyim’ il Talmud…) la nomina del nuovo direttore del principale quotidiano statunitense.

    Scrive “La Repubblica”: “Jill Abramson sarà il nuovo direttore del New York Times al posto di Bill Keller, 62 anni, che lascia per diventare giornalista a tempo pieno della cosiddetta ‘Vecchia Signora in grigio’. Newyorkese, 57 anni, la Ambramson è entrata al Times nel 1997 dopo aver lavorato al Wall Street Journal. E’ stata corrispondente da Washington, responsabile dell’ufficio di corrispondenza del quotidiano nella capitale Usa fino a diventare caporedattore del prestigioso quotidiano. “Quando ero piccola a casa mia il Times era religione”, ha spiegato Abramson, “se scriveva qualcosa, quella era l’assoluta verità”. (2)
  

     Ora la notizia in sé non è affatto uno scoop come qualcuno ha tentato di venderlo: se notizia c’è , ammesso che poi lo sia realmente, non è tanto la nomina della Abramson in quanto donna alla guida del principale quotidiano statunitense quanto il suo pedigree razziale: la prima donna ebrea chiamata a dirigere il “New York Times”.

    E per non farsi mancare niente al ‘rito’ dell’incoronazione della nuova “eroina” ebrea ad annunciare la fresca nomina è stato l’editore in persona, l’altro ebreo Arthur Sulzberger.

    Qualcosa di ‘nuovo’ dunque sul ‘fronte occidentale’? Assolutamente niente.

    L’America sempre più feudo degli e per gli Ebrei….ed il suo quotidiano di ‘punta’ sempre più “Jew York Times”…

‘Contenti’ loro…

 

 

DAGOBERTO HUSAYN BELLUCCI

Direttore Responsabile Agenzia di Stampa “Islam Italia”

 

Note –

1 – Aliza Lavie – “Le preghiere della donna ebrea” – Ediz. “Morashà”, 2010;

2 – “Jill Abramson alla guida del NY Times – E’ il primo direttore donna in 160 anni” da “La Repubblica”  2 Giugno 2011;

 

 

Il Libano: un paese in bilico

29 Giu

IL LIBANO: UN PAESE IN BILICO

–         di Dagoberto Bellucci

    Stretto tra le manifestazioni popolari che hanno scombussolato da mesi i diversi paesi arabi, vicinissimo alle tensioni che agitano la Siria e a un tiro di schioppo dalle velleità di rivalsa del nemico sionista che alla sua frontiera meridionale potrebbe rapidamente riaprire la ‘partita’ contro la Resistenza Nazionale dopo l’aggressione di cinque anni fa; il Libano si trova ad un bivio – uno dei tanti – della sua storia recente e, per fronteggiare i nuovi problemi e tenere a bada mai sopite strategie di normalizzazione provenienti essenzialmente dall’esterno, i libanesi dovranno raccapezzarsi con una situazione anomala che li vede principale ago della bilancia dei rapporti di forza tra l’autentica anima rivoluzionaria d’ispirazione nazionalista e panaraba (esemplarmente rappresentata da Hizb’Allah e dai suoi alleati di governo) che ha caratterizzato la storia del Vicino Oriente fin dalla costituzione in “stato” dell’entità criminale sionista ed il fronte filo-occidentale che , nel paese dei cedri, ruota attorno alla famiglia Hariri ed al suo partito Corrente Futura.

   La ‘battaglia’ politica che si giocherà nelle prossime settimane in Libano potrebbe difatti avere ripercussioni inevitabili per tutta la scena geopolitica della regione: è da quanto accadrà in terra libanese che si potrà comprendere se la spinta sovversiva della destabilizzazione “made in USA”, che ha contagiato gran parte del mondo arabo e provocato dinamiche conflittuali nella confinante Siria, porterà ad un nuovo calvario per il paese dei cedri oppure se, una volta di più, i libanesi sapranno rifiutare le logiche della sedizione rinunciando ad aprire pericolosi scenari da guerra civile.

   Fino ad oggi il paese è stato oggetto delle attenzioni degli Stati Uniti e delle mire militari sioniste rifiutando categoricamente di finire nella logica del “tutti contro tutti” che ha contrassegnato la storia recente della contrapposizione etnico-confessionale dell’Irak; domani quelle che finora sono state raccomandazioni e buoni propositi potrebbero non esser più sufficienti qualora da Washington si decida di accelerare i tempi portando anche il Libano nel caos di un conflitto civile generalizzato e gli elementi perché ciò possa accadere nel miscuglio etnico e tra le diciotto confessioni religiose che esistono nel paese è tutt’altro che un’ipotesi così remota.

    Dopo cinque mesi di trattative estenuanti, contrattazioni fra i partiti e bracci di ferro tra opposte fazioni il premier designato Najib Mikati ha annunciato lo scorso 14 giugno la formazione del nuovo esecutivo nazionale all’interno del quale Hizb’Allah e i suoi alleati hanno la maggioranza dei ministeri: sedici sui trenta complessivi contro i dieci detenuti dal movimento sciita filo-iraniano nel precedente governo retto da Sa’ad Hariri con il quale gli uomini di Nasrallah sono venuti ai ferri corti sulla questione del riconoscimento e della legittimità delle decisioni che saranno prese dal Tribunale Speciale per il Libano entità giuridica sovranazionale istituita dalle Nazioni Unite che intende spogliare della sovranità giuridica la nazione libanese.

    Una delle prime dichiarazioni rilasciate dal nuovo premier è stata quella che confermava gli impegni presi dal precedente esecutivo rispetto all’istituzione del Tribunale Speciale che deve emettere a giorni la sentenza sui crimini politici commessi nel paese dalla strage di San Valentino del2005 aoggi.

   La pagina giudiziaria che riguarda l’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, assassinato nel cuore della capitale sei anni e mezzo fa, rappresenta uno dei principali motivi di contrasto che divide e lacera la politica nazionale: è quanto emergerà dalle decisioni sull’affaire Hariri che può o meno cambiare alleanze politiche e assetti di potere interni e la sentenza – attesa per settembre – non farà altro che scombussolare le carte in tavola in una o nell’altra direzione, pro o contro l’una o l’altra fazione politica di quel bipolarismo imperfetto che ha, di fatto, diviso fin dalla primavera 2005 l’intero paese.

    Di quella strage e delle successive che insanguinarono il paese nei mesi seguenti furono accusati fin dall’inizio il potente vicino siriano, poi alcuni generali legati agli apparati d’intelligence di Damasco (infine rilasciati e riconosciuti innocenti) e, da ultimo, non più di un anno fa alcuni appartenenti al Partito di Dio che si dice estraneo ad ogni accusa e vittima di un complotto sionista per fomentare disordini e divisioni.

    Hizb’Allah fin dall’inizio di quella stagione delle bombe e di quel periodo (marzo-maggio 2005) che rimase impresso e venne rappresentato nei titoli giornalistici e sui media di mezzo mondo come “la primavera dei cedri” si disse assolutamente certo che dietro la mano assassina che aveva sparso terrore e morte in Libano si celasse il Mossad israeliano.

   Oggi potrebbero essere alcuni appartenenti al partito di Sayyed Hassan Nasrallah a dover rispondere per quelle stesse accuse che, di volta in volta, gli organismi internazionali hanno cercato di addebitare alla Siria di Assad o ai suoi agenti operativi in Libano anche dopo il ritiro del contingente militare.

   Normalizzata la situazione diplomatica e politica tra il governo di Beirut ed il suo omologo siriano l’attenzione del Tribunale Speciale per il Libano (TSL) pare concentrarsi contro Hizb’Allah alla ‘cerca’ di un capro espiatorio rispondente ai desiderata atlantico-sionisti.

   Funzionari libanesi avrebbero riferito che a breve il TSL emetterà gli atti d’accusa contro esponenti del partito sciita; uno scenario che apre inquietanti interrogativi per tutta la politica libanese e mediorientale.

   Già le accuse contro membri di Hizb’Allah avevano portato alla caduta del governo Hariri lo scorso gennaio, le incriminazioni finora rimaste segrete sarebbero state modificate, riviste e correte almeno un paio di volte da allora mentre lo stesso giudice del TSL starebbe valutando il rapporto conclusivo per capire se le indagini preliminari abbiano realmente prodotto delle prove sufficienti per arrivare ad un processo che, se non ci saranno colpi di scena dell’ultima ora, porterebbe sul banco degli imputati esponenti del principale partito che sostiene il nuovo esecutivo e rappresenta gli interessi iraniani nel paese oltre ad essere l’ala politica della Resistenza Islamica che negli ultimi trent’anni si è fieramente opposta a “Israele” perseguendo l’obiettivo, nella primavera 2000, di liberare le regioni meridionali.

   Secondo quanto ha riportato il quotidiano “Asharq al Awsat” da Londra sarebbero almeno cinque gli esponenti del Partito di Dio che rischiano l’incriminazione mentre fonti ufficiali avrebbero confermato che i giudici libanesi che fanno parte del TSL avrebbero già abbandonato per sicurezza il paese. I media locali hanno confermato quest’ultima indiscrezione motivandola come mossa precauzionale necessaria ad assicurare loro la massima sicurezza.

   Il Segretario Generale di Hizb’Allah, Sayyed Hassan Nasrallah, che per primo aveva riferito, l’estate scorsa, di queste accuse contro esponenti del suo partito ha sottolineato anche recentemente l’assoluta estraneità del movimento sostenendo che dietro al tribunale internazionale si muovono elementi del sionismo e interessi stranieri – in particolare americani – che mirano esclusivamente a delegittimare con un procedimento penale il movimento della Resistenza e puntare a destabilizzare il paese.

    Secondo Nasrallah il TSL sarebbe uno strumento nelle mani d’ “Israele” per fomentare la sedizione.

   In questa situazione il Libano guarda con estrema preoccupazione a ciò che potrebbe scaturire nei prossimi giorni o settimane quando le incriminazioni verranno rese infine pubbliche.

   Abituato a navigare a vista, stretto tra i suoi pluridecennali problemi di convivenza pacifica tra etnie e confessioni religiose, preda di una crisi economica che ha fortemente indebolito la sua attrattiva dei capitali finanziari esteri il Libano si interroga una volta di più sul suo futuro: niente “primavera araba” da queste parti, niente “rivoluzioni” più o meno ‘colorate’, niente sussulti ma una tensione tagliente che si percepisce nettamente e che non ha mai realmente abbandonato questo staterello di quattro milioni di abitanti stretto tra i conflitti regionali che oppongono l’America ed i sionisti all’asse siro-iraniano e le mai dimenticate beghe locali dei ‘clan’ etnici e confessionali che dal 1975 al 1990 portarono il paese al centro di un conflitto civile lungo, cruento e particolarmente feroce che costò oltre 200mila vittime, interventi militari multinazionali, aggressioni israeliane e produsse infine la pax siriana degli accordi di Taif firmati per smantellare le milizie paramilitari in Arabia Saudita.

    Una democrazia confessionale che si regge su un delicatissimo e complicatissimo rapporto di forza tra cristiani, musulmani sunniti, sciiti e drusi, che ha meccanismi di potere istituzionali creati all’indomani della fine del protettorato francese per mantenere più o meno inattaccabile l’egemonia della comunità cristiano-maronita rispetto alle altre e non ultima la recentissima contrapposizione che da quella primavera 2005 ha opposto i partiti nazionalisti che sostengono la Resistenza (a cominciare dal blocco sciita di Hizb’Allah ed Haraqat ‘Amal passando per il Partito Comunista Libanese, i laici nazionalisti del cristiano Gen. Michel Aoun, il suo collega Souleiman Franje del movimento Marada, i socialisti nazionali siriani e la locale sezione del Ba’ath) al raggruppamento filo-occidentale che ha in Sa’ad Hariri e nel suo movimento Corrente Futura il principale vettore sostenuto dagli estremisti cristiani della Falange di Gemayel e dai sostenitori dell’ex criminale Samir Geagea raccolti nel partito delle Forze Libanesi.

    Ago della bilancia dei giochi politici e della contesa libanese si è dimostrato il vecchio “marpione” ed ex signore della guerra Waleed Jumblatt che con il suo Partito Socialista Progressista dopo aver sfidato Damasco e criticato per anni Hizb’Allah accusandolo di aver provocato l’aggressione sionista contro il paese nell’estate di cinque anni fa ha virato di 360 gradi finendo per sostenere le ragioni della Resistenza.

    L’ennesimo capitolo della contorta politica libanese potrebbe aprirsi con l’adozione di una nuova legge elettorale prevista dal neonato governo Miqati. In cosa consisterà ancora non si sa, ma le parole “rappresentazione proporzionale” non fanno certo presagire una stagione tranquilla.

    Il bipolarismo non è una tendenza tutta occidentale: anche il Libano, suo malgrado e malgrado regga il concetto di “democrazia confessionale” che inevitabilmente pesa al momento del voto, lo adotta sebbene di malavoglia ad ogni tornata elettorale e questo meccanismo ha prodotto coalizioni spesso conflittuali e inverosimili come quando, nel giugno 2005, lanciò un governo, quello presieduto da Fouad Siniora, che raccoglieva tutto il ‘fronte’ filo-occidentale (i sunniti di Hariri, il PSP di Jumblatt, i due partiti falangisti di Gemayel e Geagea) al fianco del “blocco sciita” di Hizb’Allah e ‘Amal vittorioso nelle circoscrizioni meridionali e in quelle della Beka’a settentrionale.

    Attraverso i giochi di potere delle maxicoalizioni partitiche , sempre più complesse e litigiose, che cambiano come cambia il vento o meglio come cambiano le condizioni regionali, il paese è fortemente influenzato da tutto quanto avviene attorno a sé finendo per subliminare spesso le paure e le angosce di tutto il Vicino Oriente.

   In Libano le coalizioni politiche stesse prendono curiosamente il nome del giorno in cui si sono ufficialmente riunite e formate. C’è quella del  14 Marzo per i cosiddetti filo-occidentali, che annoverano tra le loro fila i sunniti della Corrente Futura, guidata dal figlio del presidente del consiglio Rafiq Hariri assassinato a Beirut nel 2005, al fianco della quale si è riunita una nuova  “sinistra democratica” (da qualcuno ironicamente e legittimamente ribattezzata “sinistra americana”)  e i diversi partiti cristiano-maroniti, retaggi delle milizie falangiste della lunga guerra civile che ha insanguinato il paese per 15 anni (1975-90). Dietro Hariri ed i suoi alleati si profila la lunga ombra dell’America e del suo potente vicino saudita che non ha mai abbandonato la famiglia del multimiliardario Hariri che rappresenta la ‘carta libanese’: una ‘carta’ troppo importante per essere facilmente abbandonata da Riad che ha, nel paese dei cedri, ingentissimi capitali investiti in infrastrutture di ogni genere e nel sistema finanziario e bancario locale.

    L’altra coalizione è quella dell’8 Marzo che sostiene la Resistenza ed il suo diritto a mantenere alta la guardia ai confini meridionali minacciati da “Israele”. Un raggruppamento come già detto eterogeneo creato dal partito sciita di Hizb’Allah per evitare il caos di un conflitto civile e mantenere il paese nell’orbita d’influenza iraniana anche perché le mire sioniste e statunitensi sull’intera regione dopo l’11 settembre 2001 erano chiare e noto l’obiettivo di colpire Teheran ed i suoi alleati.

   A livello parlamentare il raggruppamento nazionalista ha la maggioranza grazie proprio all’appoggio dei deputati espressi dal PSP del druso Jumblatt. Anche i meccanismi di potere della democrazia confessionale libanese comunque andrebbero rivisti: l’ultimo censimento risale al 1932 – dodici anni prima dell’indipendenza nazionale – ed è su quella base che ancora oggi i 128 seggi parlamentari dell’Assemblea Nazionale sono ripartiti equamente tra cristiani e musulmani.

    Ora se si considera che a causa delle diverse emigrazioni, del cruento conflitto civile che di fatto mise fine alle speranze dell’estrema destra cristiano-maronita della Falange di dare vita ad un’entità statale denominata Marunistan da posizionarsi ai confini con la Palestina occupata al lato di “Israele” e del peso demografico fatto registrare negli ultimi settant’anni dalla comunità islamica è evidente che quel censimento non abbia alcun valore in una nazione dove i cristiani attualmente non rappresentano che un 30% dell’intera popolazione mentre è proporzionalmente aumentato il numero dei musulmani. Nel parlamento di Beirut in barba alla logica ed alla matematica siedono 64 deputati cristiani ed altrettanti musulmani e questo pare essere uno dei pochi dati indiscutibili che da decenni darebbe un ‘senso’ alla politica libanese.

     Il sistema confessionale della democrazia settaria rimane dunque in piedi e sarà abbastanza significativo ciò che realmente il nuovo governo Mikati proverà ad adottare come nuova legge elettorale considerando che sono decine e decine le leggi elettorali introdotte nel paese per mantenere questo equilibrio fra i diversi interessi contrapposti.

    Mikati è più un tecnico che non un vero e proprio politico: multimiliardario è stato per anni uno dei più validi antagonisti dello strapotere esercitato all’interno della comunità sunnita dalla famiglia Hariri.

    L’obiettivo dovrebbe essere quello di adottare un criterio ed una nuova legge elettorale che non abbiano come riferimento il settarismo confessionale, vera e propria spina nel fianco di tutti gli esecutivi che, nel passato più o meno prossimo, hanno tentato di modernizzare il paese. Gli elementi in suo favore sono, al momento, la maggioranza piuttosto relativa che lo sostiene e l’entusiasmo con il quale sembra essersi messo all’opera concentrando immediatamente i suoi sforzi su una politica riformista che provi a rilanciare la disastrata economia del paese, il commercio, gli affari e soprattutto attrarre nuovamente gli investimenti stranieri.

    Nella storia libanese due sono state le leggi elettorali realmente determinanti: quella adottata nel 1960 che riconosce 26 kaza (circoscrizioni elettorali) e che è stata ri-adottata in occasione delle ultime elezioni del giugno 2009. La seconda, per importanza, è quella che risale invece all’anno 2000, quando ancorala Siriaoccupava con un suo contingente militare il paese, stabilita da un esecutivo pro-siriano che divise il Libano elettoralmente in 14 macro-circoscrizioni.

    La posta in palio – a seconda di quale legge elettorale si adotterà in futuro – è alta: è infatti a seconda del numero delle circoscrizioni che si decide l’esito del voto in un paese così profondamente lacerato da conflitti e divisioni etniche e confessionali.

    La questione relativa all’adozione di una nuova legge elettorale sarà determinante gli esiti politici delle prossime legislative, previste per il 2013, che vedono Hizb’Allah interessato – assieme ai suoi alleati – a mantenersi parte attiva del processo di rinnovamento della scena politica nazionale.

    I meccanismi elettorali fino ad oggi utilizzati si sono dimostrati insufficienti a garantire una reale rappresentatività di tutte le forze politiche come ha lucidamente posto in evidenza in un suo articolo Giorgia Grifoni che scrive: “Nello specifico, grandi o piccole circoscrizioni fanno la differenza. In alcune di esse, come Beirut 3, i seggi sono ripartiti tra molte comunità. Altre circoscrizioni, più uniformi nel credo religioso e meno popolate, come quella di Bint Jbeil, hanno molto meno peso decisionale. Gli elettori devono votare sì per i candidati della loro confessione, ma anche per quelli delle altre presenti nella circoscrizione. Ed ecco che in una circoscrizione a maggioranza sunnita come Beirut 3, gli elettori voteranno per i candidati maroniti della coalizione del 14 marzo, non per quelli dell’8 marzo. E se il candidato druso, per assurdo, non prendesse neanche un voto, vincerebbe comunque: perché un seggio gli spetta di diritto. Ali el-Samad, politologo, spiega in un suo articolo come ogni confessione cerchi di adottare la legge elettorale che gli garantisca una maggiore rappresentatività: “ Per i cristiani, la piccola circoscrizione offre la possibilità di eleggere i propri deputati e di marginalizzare così l’intervento della comunità musulmana. Per quanto riguarda i musulmani, essi sono presenti in quasi tutte le regioni e, grazie alla loro superiorità demografica, sono favorevoli sia alla piccola circoscrizione (i sunniti), che alla circoscrizione elettorale unica in tutto il territorio(gli sciiti)”. Tutto questo è ovviamente condizionato dai giochi di potere esistenti. “Dagli accordi di Ta’if –continua el-Samad- il Libano è stato sotto il controllo siriano. I codici elettorali adottati in quel periodo avevano come obiettivo quello di sostenere ed eleggere i candidati lealisti appartenenti al clan pro-siriano. La legge detta Ghazi Kanaan (capo dei servizi segreti siriani in Libano), promulgata nel 1996 in vista delle elezioni legislative di agosto 2000, aveva un solo obiettivo: la consolidazione della presenza siriana in Libano attraverso l’elezione dei suoi deputati e il tentativo di eliminare l’opposizione in maggioranza maronita. Quindi il Libano fu tagliuzzato in 14 circoscrizioni territoriali  che non rispettavano né la realtà politica, né le logiche geografiche e sociali”. Con la vittoria del fronte anti-siriano alle elezioni del 2005, si è tornati alla vecchia legge del 1960, che divide il territorio in circoscrizioni più piccole e dà la possibilità alla minoranza cristiana di rappresentare i suoi elettori.” (1)

     In attesa di conoscere quali saranno i provvedimenti in materia di legge elettorale che intenderà adottare il nuovo esecutivo Miqati i libanesi devono fronteggiare l’eventualità che il clima di apparente calma che regna nel paese sfoci in nuove tensioni e problemi: c’è la situazione siriana da tenere sotto osservazione, ci sono i tentativi di destabilizzazione interna affidati dalle centrali del terrore internazionale e a gruppuscoli come Fatah al Islam ed altri della galassia palestinese (una componente per troppi anni rimasta emarginata dopo l’esilio forzato al quale venne costretto Yasser Arafat dopo l’assedio sionista di Beirut del 1982) e c’è sempre il rischio che “Israele” possa approfittare del caos prodottosi nella regione per muovere nuovamente contro Hizb’Allah e il paese.

    In questa situazione è ovvio che oggi – come sempre d’altro canto –  i libanesi siano davanti ad un bivio.

    Lo spartiacque tra guerra e pace, calma e tempesta, da queste parti si misura anche, soprattutto, dalla pazienza con cui si guarda al futuro: in questo momento ne occorre davvero parecchia anche perché sono realmente troppi gli interessi in ballo che coinvolgono i principali attori della geopolitica locale e internazionale.

    Hizb’Allah in ogni caso sarà sempre l’ago della bilancia reale dei rapporti politici interni e il vettore rivoluzionario e militare puntato contro l’entità criminale sionista: questo è il suo naturale scopo per il quale il movimento sciita libanese venne fondato nell’ormai lontano 1982.

   Chiunque prevedesse – come sottostimandone le capacità di reazione fecero i vertici politici e militari israeliani nell’estate di cinque anni fa – una politicizzazione ed un eventuale imborghesimento degli uomini del Partito di Dio evidentemente non avrebbe capito alcunché di una realtà multiforme e multidimensionale qual è quella rappresentata dal movimento di Nasrallah al quale guardano con favore le masse arabe oppresse e verso il quale spesso sono state lanciate pro-offerte di vario genere da emissari dell’Amministrazione USA.

   Hizb’Allah, che conosce perfettamente le ‘regole’ del Great Game, non abbasserà la ‘guardia’ né arretrerà di un passo mantenendo fede alla sua missione metastorica che è quella di arrivare, un giorno, alla liberazione della terrasanta palestinese occupata e alla vittoria delle armi del fronte dei diseredati che – secondo l’interpretazione sciita e khomeinista iraniana – spetta a coloro che combattono la tirannia e l’ingiustizia planetarie rappresentate dal Grande Satana a stelle e strisce e dal suo alleato sionista.

   Per ogni problema esiste una soluzione: gli uomini del Partito di Dio sapranno come affrontare anche la ‘bega’ del TSL , i tentativi di discreditare il movimento e le vecchie e nuove strategie us-raeliane di destabilizzazione dell’area.

 

DAGOBERTO HUSAYN BELLUCCI

Direttore Responsabile Agenzia di Stampa “Islam Italia”

Note –

1 –  Giorgia Grifoni – “Proporzionale sfida sistema elettorale” dal sito Nena news dell’Agenzia Stampa Vicino Oriente (Near East News Agency) all’indirizzo informatico  http://www.nena-news.com/?p=11037

LA SIRIA: UN BALUARDO ANTI-MONDIALISTA

28 Giu

LA SIRIA: UN BALUARDO ANTI-MONDIALISTA

–         di Dagoberto Bellucci

   La Siria del Presidente Bashar el Assad, perno degli assetti geopolitici e strategici dell’intero Vicino Oriente, rappresenta la cinghia di trasmissione della rivoluzione islamica iraniana in direzione Libano e Palestina oltre a costituire il principale baluardo anti-sionista erede del nazionalismo panarabista rivoluzionario che, a partire dal Movimento dei Nazionalisti Arabi e passando per la rivoluzione kemalista egiziana degli anni Cinquanta fino all’Intifadah palestinese ed alle lotte di liberazione condotte da Hizb’Allah in Libano ed Hamas nella Palestina occupata, ha condotto la lotta di resistenza anti-imperialista della nazione araba nel corso degli ultimi sessant’anni.

    Non esiste alcuna alternativa alla presenza – oggettivamente stabilizzante l’intero panorama politico regionale e garante della saldatura sciita tra Teheran e Beirut – del pluri-quarantennale governo del Partito Ba’ath a Damasco: disintegrata l’opzione irachena, eliminato Saddam Hussein e confinata la spinta rivoluzionaria islamista di Hamas alla sola Striscia di Gaza per il mondo arabo è necessaria la sopravvivenza del regime di Assad la cui presenza garantisce una continuità ideale e politica della lotta di liberazione araba ed un trade d’union ideologico e militare fra le rivoluzioni arabe socialiste nazionali laiche degli anni Cinquanta e Sessanta e la Rivoluzione Islamica iraniana: la Siria è dunque soggetto fondamentale per tutto il mondo arabo-islamico in contrapposizione alla macchina bellica ed all’egemonia israeliana ed ai ricatti dell’imperialismo statunitense.

   In questa ottica la Siria ba’athista di Assad è l’ultima espressione di un movimento rivoluzionario che, nel corso dei decenni, ha progressivamente adottato diverse forme e modalità per concentrare i suoi sforzi contro il nemico sionista senza disperdere inutilmente energie nelle lotte interminabili e fratricide fra nazioni arabe che anziché marciare unite contro il comune avversario si sono spesso lasciate fuorviare dalle strategie di destabilizzazione regionali partorite da “Israele” e – soprattutto – dal suo più importante alleato (gli Stati Uniti) determinato a modificare le mappe geopolitiche regionali per favorire i propri interessi energetici, economici, politici e militari nella zona.

    L’America in questa situazione di caos generalizzato che ha colpito l’intero mondo arabo gioca, come sempre, un ruolo determinante: è dall’amministrazione Obama che sono partite le indicazioni ai cosiddetti ribelli ed è soprattutto Washington che ha dato carta bianca e rapidamente controllato le agitazioni di piazza che da Tunisi al Cairo passando per Sana’a e Damasco hanno scatenato le rivolte popolari.

    Il ruolo che svolge l’America in questo momento è quello di direzione generale della ribellione: Washington promuove il caos e anima la rivolta di piazza con la speranza di veder nascere da quello che qualcuno ha definito come “il 48 arabo” il suo progetto di Nuovo Grande Medio Oriente, una confederazione di Stati arabi moderati, ridotti a mendicare aiuti economici e monetari dalla comunità internazionale e dagli istituti finanziari del Mondialismo (in particolar modo da Fondo Monetario e Banca Mondiale) e pronti a soddisfare tutte le richieste del Sionismo interno ed internazionale ovvero ‘adempiere’ supinamente alla pre-condizione necessaria per risanare le loro casse statali in disfacimento cioè riconoscere l’entità criminale sionista usurpantela Terrasantapalestinese primo passo, fondamentale, per la creazione di un mercato comune regionale all’interno del quale “Israele” possa godere del ruolo privilegiato di ‘cassaforte’ degli scambi commerciali e delle transazioni finanziarie in spregio alla pluri-decennale lotta di liberazione condotta dal popolo palestinese e dalle sue organizzazioni di resistenza.

   Se da un lato il “Grande Satana” – splendida metafora con la quale usava chiamare gli Stati Uniti d’America il compianto Imam Khomeini (che Dio lo abbia in gloria) – utilizza le sollevazioni di piazza per soddisfare i propri interessi geostrategici prendendosi una clamorosa rivincita laddove, in dieci anni di guerre asimmetriche e tentativi vanificati di ‘esportazione’ della democrazia, i suoi eserciti hanno fallito (Afghanistan, Irak) e la sua influenza è venuta meno determinando squilibri regionali gravissimi (il caso del Pakistan è lampante malgrado l’intelligence statunitense continui a disegnare un’alleanza solidissima con Islamabad e segnali di profonde divergenze sulla cosiddetta guerra al terrorismo internazionale si sono oltremodo evidenziate anche con altri e più fidati alleati fra i quali la Turchia, bastione NATO fondamentale nel perimetro geopolitico del Mediterraneo sud-orientale) ciò non significa che la tela degli intrighi e dei complotti internazionali orditi dall’amministrazione USA e dai suoi compari sionisti non abbia dato i suoi frutti: ‘persi’ Mubarak e Ben Alì gli Stati Uniti hanno immediatamente coperto il vuoto di potere al Cairo come a Tunisi con elementi affidabili che, di fatto, hanno ridimensionato la spinta rivoluzionaria dei moti popolari d’inizio anno dando alla transizione verso una democrazia diretta in entrambi i paesi (Egitto e Tunisia) una valenza più conforme ai desiderata ‘occidentali’; in Libia – in modo più che sapiente – l’America ha lasciato campo aperto alle iniziative belliche dei ‘volenterosi’ ruffiani di Washington in campo europeo (i ‘compari’ britannici ma anche le velleità di ‘grandeur’ dell’Eliseo francese dove il giudeo Sarkozy – mai come oggi la France est juif – ha ottenuto ‘punti’ preziosi dall’avventura militare libica in prospettiva delle prossime elezioni e, dulcis in fondo, pure all’italietta berlusconian-legaiola che, nel contesto internazionale venutosi a creare sulla sponda meridionale mediterranea conta come il due di picche con la briscola a fiori…meno di zero…alla faccia delle promesse mancate, dei trattati bilaterali di amicizia firmati non più di tre anni fa con il Colonnello Gheddafi ‘amico’ personale del Cavaliere di Arcore…. E meno male per Gheddafi che era ‘amico’ figuriamoci fossero stati nemici…Tant’è in guerra – tirata per le ‘palle’ da Parigi, Londra e Washington, presa per il collo dalle decisioni dell’Allenza Atlantica o per mantenere quantomeno un briciolo di controllo sui nostri interessi energetico-economici in Libia – contro Gheddafi ed in prima linea c’è anche Roma che ha visto decisamente, e a questo punto, radicalmente ridimensionata la sua – vera o presunta – sfera d’interesse e la sua politica ‘autonoma’ rispetto alle strategie USA. Chi governa e detta le condizioni sono sempre gli Stati Uniti …la colonia tricolor-kippizzata italiota al massimo può solo ed esclusivamente obbedire agli ordini provenienti d’oltre-oceano)  ed infine oggi l’Establishment giudaico-massonico che controlla la politica estera statunitense tramite le sue strutture semi-occulte (il Council on Foreign Relations, le fondazioni, le multinazionali, le logge massoniche e il lobbismo pro-sionista di gruppi di pressione quali l’A.I.P.A.C. o il B’nai B’rith) ha decisamente ‘puntato’ la Siria socialista-nazionale e rivoluzionaria del Presidente Bashar el Assad.

   A Damasco non regna, come ci hanno ‘raccontato’ i media filo-occidentali di mezzo pianeta, né la paura né il terrore queste sono cazzate buone per qualche ‘scoop’ degno di MTV e qualche altro canale under controll: la realtà è che il governo a guida ba’athista che dirige la vita politica del paese da oltre quarant’anni ha saputo mantenerela Repubblica Araba Siriana al di fuori delle contese militari che hanno investito il Vicino Oriente negli ultimi trent’anni (l’ultimo intervento militare delle truppe di Damasco risale addirittura al lontano 1978 nel conflitto civile libanese e su delega della Lega Araba) e le iniziative per migliorare il tenore di vita e l’economia nazionali sono state notevoli soprattutto negli ultimi anni.

   Lo sforzo per la modernizzazione nazionale, per un rilancio dell’economia, per un miglioramento dei rapporti bilaterali con altri Stati arabi vicini o confinanti è stato – da questo punto di vista – considerevole e proficuo: Damasco, dopo una lunga fase di stallo politico interna al vicino Libano – ha riconosciuto e aperto infine relazioni diplomatiche, con scambio di ambasciatori, con Beirut promuovendo quel confronto fra i partiti politici libanesi necessari per riportare concordia in una nazione sull’orlo, fino a qualche anno fa, del conflitto civile; verso Riad e l’Arabia Saudita i siriani hanno sempre manifestato aperture e disponibilità per la risoluzione dei contenziosi regionali dopo il gelo seguente l’aggressione sionista al Libano dell’estate di cinque anni or sono ed infine ottime relazioni andavano maturando con la confinante Turchia a guida islamista verso la quale erano stati fatti progressi di collaborazione in tutti i settori dello sviluppo (industriali, agricoli e nel terziario).

    Un idilio quello con Ankara che stava dando ottimi frutti anche nella contrapposizione delle mire sioniste nella regione con un avvicinamento politico ulteriore dopo la vicenda della Freedom Flottilla dell’estate scorsa.   

    Un paese, la Turchia, verso la quale le autorità e i media siriani si erano espressi spesso come ad un “amico” , addirittura un “fratello” come veniva presentata la cooperazione tra i due vicini ricordando l’ottime relazioni tra Assad e Erdogan e le molteplici comuni posizioni su molte delle questioni in ‘agenda’ relative all’intera regione (questione curda, nucleare iraniano, situazione palestinese, crisi politica libanese).

   Questa luna di miele tra Siria e Turchia potrebbe essersi definitivamente incrinata a seguito della rivolta interna che da mesi aleggia alle porte di Damasco e che coinvolge in particolare le regioni settentrionali a maggioranza sunnita dove gli elementi radicali legati alla rete al-qaedista hanno i loro feudi e dove agiscono da anni organizzazioni terroristiche quali Jund al Sham’s che danno, a loro volta, reclute, armi e finanziamenti ad analoghi gruppi visti all’opera anche nel vicino Libano (Fatah al Islam , che prese il controllo del campo profughi di Nahr el Bared nella zona di Tripoli area settentrionale libanese, aveva ai suoi vertici molti esponenti di spicco della rete jihadista alcuni dei quali già ricercati per terrorismo in Siria).

   Alle spalle di queste organizzazioni del terrore e del crimine si celano le strategie di destabilizzazione regionale del Grande Satana statunitense e dei suoi alleati: sono accertati i collegamenti, i contatti e l’azione esercitata sia su Jund al Shams che su Fatah al Islam da parte dei servizi d’intelligence della confinante Giordania e dell’Arabia Saudita che esercita una fortissima pressione (e paga benissimo) per seminare la sedizione sia in Siria che in Libano.

   In Siria la rivolta eterodiretta da Washington è sostenuta dal fiume di petroldollari saudita e dal mercenariato wahabita e salafita molto spesso proveniente dal fronte iracheno (sono numerose le testimonianze che accertano la presenza di elementi di spicco della rete di al Qaeda in Irak passati, dopo sette anni di esperienza sul perimetro militare iracheno, in Siria) da altri paesi dell’area del Golfo o dalla vicina Giordania.

   In Libano sono risultate palesi le connivenze tra elementi della rete del terrore di Fatah al Islam e la stessa famiglia sunnita degli Hariri che controlla politicamente proprio l’area a nord del paese dove il gruppo terrorista opera e quella di Sidone dove suoi elementi si sono infiltrati nei due campi profughi palestinesi come testimonia anche l’attentato contro una pattuglia di militari italiani del contingente UNIFIL di un mese or sono.

   L’obiettivo in entrambi i casi è chiaro: mantenere alta la tensione nel paese dei cedri (è recente l’arresto di un predicatore sciita che aveva creato proprio a Tripoli, nel nord del Libano, una sorta organizzazione che metteva in discussione la leadership rivoluzionaria di Hizb’Allah ….tentativo non nuovo da parte dell’America e dei suoi alleati di screditare le forze della Resistenza Nazionale utilizzando nuovi e a volte anche vecchi ‘arnesi’ per minare dall’interno il fronte anti-sionista) e premere direttamente contro il regime siriano per provocarne la caduta dall’interno attraverso la rete terroristica jihadista che le autorità di Damasco hanno sempre combattuto con ogni mezzo.

    In Siria la situazione evolve: sela Turchiasi è dimostrata un alleato inaffidabile – di qualche giorno or sono il lancio di una iniziativa del Partito Ba’ath per il boicottaggio dei prodotti turchi – nel Libano le forze nazionaliste dell’Opposizione hanno infine trovato l’unità attorno al nome di Najib Mikati premier designato qualche mese fa a costituire un esecutivo sostenuto da Hizb’Allah e dai suoi alleati.

    La situazione appare particolarmente incandescente al confine siro-turco dove l’esercito di Damasco si è attestato attorno ai villaggi di Maarrat an Numan, centro vitale di comunicazioni sull’autostrada Damasco-Aleppo e poco distante da Jisr ash Shughir località nel nord-ovest al confine conla Turchiadove si contano oltre diecimila profughi siriani.

    La presenza dell’esercito siriano testimonia l’impegno preso dalle autorità di Damasco per ripristinare l’ordine ed impedire che nuovi elementi sediziosi possano infiltrarsi da nord come da sud (al confine iracheno) per promuovere e rinfocolare la protesta.

     Mentre le agenzia di stampa internazionali – eterodirette da elementi sionisti e sottoposte al controllo dell’Intelligence statunitense (anche i social-network alla ‘Facebook’ o “Twitter” sarebbe ‘scrupolosamente’ monitorati dalla C.I.A.) – blaterano quotidianamente di incidenti e scontri a fuoco nel paese nessuno ricorda il sacrificio di sangue di molti esponenti, ufficiali e militari, delle forze armate vilmente aggredite da bande di terroristi ‘insorti’ affatto ‘casualmente’ contro le autorità.

    La televisione di Stato e l’Agenzia Nazionale siriana SANA mostrano invece quale sia la realtà di una situazione che, come per la Libia, qualcuno ai piani ‘alti’ dell’Establishment a Washington – con l’ausilio e l’avallo possibilmente dei potentati internazionali del Mondialismo (l’ONU)  – vorrebbe ripetere il copione libico auspicando e sostenendo l’esigua minoranza dei rivoltosi ai quali, proprio nelle ultime ore e per l’ennesima volta, ha aperto il Regime.

    Manifestazioni popolari oceaniche di sostegno al Presidente Bashar el Assad hanno inondato le strade e le piazze di Damasco, Latakia, Aleppo, Homs, Tartus principale porto siriano a nord dove ha sede una numerosa comunità cristiana.

     “Siamo oggi qui per invitare tutti i siriani a boicottare i prodotti turchi”, hanno detto alcuni dei partecipanti al raduno svoltosi in questa ultima località e interpellati dall’emittente nazionale. Senza fornire ulteriori dettagli, gli intervistati si sono detti “irati per l’atteggiamento turco in un momento in cuila Siria è colpita da un complotto straniero”.

     E che di complotto straniero si tratti appariva chiaro fin dall’inizio della strana rivolta che, dal tam tam internettiano-informatico fino alle primissime manifestazioni nei sobborghi meridionali della capitale Damasco, ha visto le autorità siriane pronte a esaudire alcune delle richieste della piazza soprattutto quelle di una riforma istituzionale: la realtà è che i manifestanti dell’opposizione – sostenuti dall’esterno – vorrebbero tutto e subito per precipitare il paese nel caos e consegnarlo domani, su un piatto d’argento, al Sionismo Internazionale.

   Appare quindi evidente e logico il monito lanciato a fine maggio dal Segretario Generale di Hizb’Allah, Sayyed Hassan Nasrallah, che ha indicato ai giovani siriani la strada maestra che è quella che non può lasciare campo libero ai nemici della Nazione Araba invitando tutti i siriani a sostenere il regime di Assad “amico fraterno” della Resistenza Nazionale Libanese.

   In questa situazione di conflitto generalizzatola Turchia, che negli ultimi anni si è imposta come uno dei principali partner economico-commerciali della Siria, invadendo con i suoi prodotti i mercati siriani, in particolare nelle regioni settentrionali, è l’unico Paese confinante conla Siriache sin dall’inizio delle proteste ha invitato con fermezza il regime di Damasco a non ricorrere all’uso della forza sui civili e ad avviare serie e radicali riforme.

   Nelle ultime giornate sempre più febbrili sono stati gli incontri che hanno visto il Gen. Hasan Turkmani, sunnita ed ex ministro della Difesa di Damasco, trascorrere parecchi giorni ad Ankara per incontri ai più alti livelli con il premier Tayyip Erdogan e con il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu.

    Entrambi i colloqui erano chiusi alla stampa e nessun comunicato ufficiale è stato emesso al termine delle riunioni. Indiscrezioni di stampa affermano che Turkmani avrebbe chiesto ai “partner turchi” rassicurazioni sulle presunte intenzioni di Ankara di creare una zona cuscinetto all’interno del territorio siriano, in caso dell’inasprirsi della repressione e della conseguente crisi umanitaria.

    Ad Harasta, in un sobborgo nord di Damasco, un corteo di circa 200 donne che invocavano la liberazione dei loro congiunti arrestati durante le recenti manifestazioni è stato disperso dalle forze di sicurezza. Questo mentre dalla Giordania giungono notizie di una parziale riapertura – riservata ai piccoli imprenditori e ai commercianti – del valico di frontiera meridionale con la regione di Daraa, primo epicentro delle proteste dal 18 marzo scorso.

    Infine domenica scorsa a Kseir, località alla frontiera con il Libano, l’esercito siriano avrebbe esteso la sua offensiva per la normalizzazione del paese e la bonifica del territorio da elementi sovversivi.

    L’energica reazione delle forze armate e dei reparti fedeli al Presidente Bashar el Assad garantiràla Siriada spiacevoli sorprese nel breve periodo riportando il paese ad una normalità che è condizione essenziale per fronteggiare tutte le minacce, interne ed esterne, che incombono su quello che rimane l’ultimo baluardo anti-sionista e anti-imperialista della Nazione Araba.

    Non esiste alcuna alternativa alla leadership del Partito Ba’ath a Damasco come non esiste alcun cambio di regime plausibile per le forze rivoluzionarie – siano nazionaliste o internazionaliste, laiche o confessionali, islamiche o cristiane – che intendono nel perimetro geostrategico del Vicino Oriente opporsi al Sionismo ed all’Imperialismo: con Assad fino alla vittoria!

    ‘Qualcuno’ sta con Gheddafi, ‘altri’ con la NATO; c’è chi ha troppo frettolosamente osannato la politica di Ankara e chi sostiene la necessità dell’alleanza turco-siriana….a noi francamente interessa veramente poco – ‘francamente’ niente – nè di Gheddafi, nè della NATO e tantomeno della Turchia…

    A ognuno ‘dunque’ il ‘suo’: il ‘nostro’ si chiama Repubblica Islamica dell’Iran, Repubblica Araba Siriana, Hizb’Allah….perchè tutto il ‘resto’ non ‘conta’….

DAGOBERTO HUSAYN BELLUCCI

Direttore Responsabile Agenzia di Stampa “Islam Italia”