Recensione Libraria – Guido De Giorgio: “La Tradizione Romana”

20 Feb

RECENSIONE LIBRARIA –

GUIDO DE GIORGIO: “LA TRADIZIONE ROMANA”

“L’Occidente non ha altra tradizione vitale all’infuori di quella Romana, purchè sia integrata, realizzata nella totalità dei suoi sviluppi riferibili ai due tipi essenziali, la Contemplazione e l’Azione. (…) L’Europa non ha fissità perchè non ha tradizione: perdendo di vista il vero “dinamismo” (…), si è lasciata sommergere da un fremito titanico di permanente mobilità a cui si dà il nome di “attività”, “d’impulso dinamico” e via dicendo. In realtà tutto ciò è delirio infantile…”

(Guido De Giorgio – dal testo)

 

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“Libro strano e impressionante” viene definito da Franco Pintore nella sua prefazione; una specie di “iniziato allo stato  selvaggio e caotico” descrive l’autore Julius Evola in un brano estratto dal “Cammino del Cinabro”.

Strano il volume come la sua ‘storia’… alcuni libri hanno infatti un destino particolare, legata a sè una storia che li differenzia dagli altri rendendoli praticamente ineguagliabili ed unici.
Ed unico questo testo lo sarà sul serio: per come vedrà la luce, a trent’anni dalla scomparsa dell’autore, ma anche indiscutibilmente per lo ‘stile’ con il quale sono state esposte le basi essenziali della tradizione romana ed, infine, per la mole di intuizioni che accompagnano l’intera esposizione.

Il volume del De Giorgio appartiene a buon  diritto a quella “letteratura della crisi” della quale fu pervasa l’epoca tra i due conflitti mondiali , ne risente in alcune sue pagine della stessa tensione ideale, se ne possono addirittura percepire il frastuono così come, allo stesso modo, è possibile percepirne nitidamente il grido di dolore, quasi un accorato  ultimo appello all’Occidente ‘morente’, che De Giorgio ha lanciato ad una società moderna infausta, infelice, omicida, vuota.

Ricorda Spengler, ma va ben oltre Spengler.

“Noi vorremmo far comprendere agli uomini attuali – scriverà nelle pagine conclusive di questa ‘strana’, intensa, appassionata opera ( che trasuda di un qualcosa che trascende la pura e semplice esposizione, che non scade mai al rango di una banale esposizione dottrinale nè ha niente di ‘accademico’ per poter rischiare di finire incasellata in una qualche ‘scuola’ ); il suo autore – che il ritorno alla Tradizione Romana significa tutto: verità, giustizia, bellezza, felicità, che non si tratta di trasformare il mondo in una indefinita teoria di asceti, ma semplicemente di permettere a ciascuno lo sviluppo normale della sua natura poichè l’unicuique suum tribuere, anche nell’accezione comune ed esterna dell’espressione, significa ridare a ciascuno l’esercizio normale della libertà di cui è degno. L’Occidente moderno ha operato una deplorevole , inumana confusione riducendo la qualità a quantità, facendosi deviare dal veleno democratico e livellatore, mentre la tradizione implica la netta differenza qualitativa perchè si fonda sulla verità a tutti palese della disuguaglianza naturale degli uomini.”.

Chiare, lucide, sacrosante parole.
Questo grido, inascoltato fintanto che tardivamente – troppo tardivamente – il volume non vide la luce in una edizione limitata nel 1973,  rimasto strozzato nella gola dell’autore sarà recuperato da Evola.

Un recupero certamente tardivo, ma non inutile. “La Tradizione Romana” era stato certamente ultimato da De Giorgio almeno all’inizio del 1940, anno fatale per i destini dell’Italia, e De Giorgio prefigurava prima ancora che tutto fosse perduto di andare “al di là del fascismo e dell’antifascismo”, della “politica spicciola”, delle manifestazioni contingenti per recuperare quanto di più reale nel cuore dell’Occidente potesse rappresentare un Principio regolatore: la tradizione romana.

Un’appello che l’autore stesso definisce come una proposta “più vecchia del mondo” ossia restaurare lo “spirito di Roma”.

“La restaurazione che noi proponiamo, riprendendo il pensiero, l’aspirazione e l’ideale di Dante, è un ritorno allo spirito di Roma, non la ripetizione, pura e semplice del passato che sarebbe d’altronde irrealizzabile (…) , ma l’adesione a quei principi eterni di verità che sono contenuti nei Libri Sacri ed espressi dai simboli antichi.”.

Appello lanciato non tanto nè solo per salvare l’Occidente intero dalla catastrofe materiale e contingente del momento nè dalla sua intemperanza o irruenza (che di lì a poco avrebbe dato ennesima riprova con lo scatenamento di un conflitto dal quale niente sarebbe sopravvissuto nè di tradizionale nè tantomeno di realmente europeo restando solo rovine fumanti a far da panorama desolante e sudario insanguinato ad un continente lacerato ed infine disintegrato dai suoi più irriducibili avversari) ; ma dalla sua decadenza spirituale, dal suo vuoto morale, dalla sua secchezza ideale di cui già l’Europa e l’intero mondo occidentale avevano dato ampia dimostrazione.

De Giorgio indica un percorso ed una verità che, nella sua lapalissiana realtà metastorica, può essere alla portata di chiunque sappia vedere: “la vera potenza dell’uomo – scriverà – consiste nella realizzazione della sua natura e origine divina” e per quanto ciò possa sembrare irrealizzabile all’individuo-massificato del XX° secolo, per quanto possa ancora inorridire le menti deboli aduse ad un sentimentalismo fideistico o venir tacciata come pura e semplice blasfemia da una consuetudine bigotta; resta ciononostante una realizzazione possibile.

Non è dato sapere se il libro di De Giorgio sia realmente approdato fino al tavolo del Duce come probabilmente avvenne nè, soprattutto, quale giudizio abbia espresso Mussolini per quest’opera così densa quanto accalorata scritta in un misto di ‘frenesia’ (l’urgenza da ultimo monito) e passione e che, sotto più di un aspetto, doveva così da vicino ricordare l’Evola della seconda metà degli anni Venti, il filosofo di “Imperialismo pagano” e degli articoli per il periodico “La Torre” ; ma certo l’intenzione dell’autore è quella di dare indirizzi generali per un’epoca inquieta dominata dall’istinto, dall’emotività e da quella stessa frenetica velocità dell’agire, dell’azione, del vivere pericolosamente di mussoliniana e fascistissima memoria che – volontariamente o involontariamente che fosse – favoriranno le forze avverse, quelle forze della modernità che avrebbero condotto una titanica e spietata battaglia contro il mondo della tradizione, contro la Tradizione – la sola – ‘occidentale’ rappresentata da Roma e dalla sua aeternitas e , ovviamente, contro il Fascismo che – anche in questo caso deliberatamente o meno, coscientemente o meno –  di questo simbolo, di quest’ideale e di questa realtà metastorica dell’Urbe , della sua forza e potenza, aveva apertamente richiamato il nome cercando di rigenerarne – in maniera confusa certamente, in modo alquanto inappropriato decisamente – simbolo e miti.

De Giorgio propone la fascificazione dell’Europa e dell’Occidente intero quale sola salvezza possibile. E’ il suo monito, il suo appello, la sua utopia , forse.
Ma è un’utopia che ha della logica, del raziocinio, basi di verità. Una fascificazione che vuole andare al di là , molto al di là, di quanto non avessero compreso , o vagamente vagheggiato, Mussolini e la stragrande maggioranza dei dirigenti il movimento fascista: “senza rivoluzioni e senza violenza” sottolineerà il prof. Pietro Di Vona nel suo “Evola e Guènon” (Soc. Editr. Napoletana, Napoli 1985) : una rettificazione che partendo dai Principi Immortali liberasse le energie , rigenerasse gli individui, mutasse il corso della storia e, per De Giorgio, ponesse un limite a quella modernità avvertita come quintessenza di uno spiritto dissolutivo, anti-tradizionale, disintegrante spiriti e etiche, individui e società.

Non casualmente in alcune delle pagine de “La Tradizione Romana” De Giorgio finirà per scagliarsi direttamente contro “la macchina” , espressione “più turpe” , scriverà, del mondo moderno, della caduta senza freni del mondo verso l’irreparabile.

E’ la macchina l’archetipo diabolico che simbolicamente esprime lo spirito della modernità, che ne rappresenta la quintessenza: “precipitato massimo dell’errore, concrezione ultima della catastrofe occidentale” …. “una creatura diabolica, chiusa, cieca, impenetrabile, concrezione tangibile, ispessimento, materializzazione di tutto ciò che nell’uomo è vita, cioè simbolo della Realtà Divina” in  quanto la macchina “è morte e semina morte”.

Per “ricondurre l’Occidente attuale a una normalità da gran tempo scomparsa” De Giorgio fissa nella perenne eredità, nel lascito indelebile, nella aeternitas di Roma quale simbolo e centro tradizionale imperituro, la possibile strada per una restaurazione dell’ordine tradizionale unendo la Roma prisca e arcaica – repubblicana ed imperiale dei Cesari, delle Aquile e dei Fasci Littori, l’Urbe di Giano e della fiamma che – ci confida l’autore – arde ancora nel Tempio di Vesta quale lascito, memoria e monito – alla Roma dei Papi e del Cristo Rex, dei Pontifex i facitori di ponti tra il Cielo e la Terra, gli Eredi di San Pietro, e l’ordinamento feudale medievale dalla Chiesa costruito per secoli.

E’ a questa visione di una Roma doppiamente eterna che De Giorgio guarda e che fanno della sua opera un unicuum che , nel campo degli studi tradizionali, intende tessere una sorta di invisibile fil rounge di congiunzione tra il “paganesimo tradizionalista” evoliano e la sua preminenza alla sfera attivista , all’azione ed alla regalità, alla visione metafisica e di principio guenoniana che privilegiò sempre la sfera contemplativa, la meditazione, il sacerdozio partendo entrambi da identici punti di riferimento, stesse basi dottrinarie e ritrovandosi in convergenti analisi in merito alla crisi del mondo moderno.

De Giorgio passando dall’originaria Tradizione Primordiale delinea le caratteristiche di una autentica società tradizionale, destinando capitoli interi a ordinare le funzioni rispettivamente di sacerdoti, guerrieri e operari finendo per documentarci in una ampia disamina alcuni degli aspetti caratteristici e primordiali, originari, della Tradizione Romana tra i quali il simbolismo bifaciale del Dio Giano e del nome occulto di Roma:  “L’Italia è detta Saturnia perchè in essa sorge e si sviluppa l’ultimo tipo di tradizione occidentale che inizia un nuovo ciclo con Giano simbolo della non dualità dei due ordini, quello divino e quello umano, innestati per così dire sulla stessa radice, ch’è il dio, benchè distinti dalla bifrontalità: Si noti che la duplicità degli aspetti di Giano – qualunque forma essa prenda – Oriente Occidente, passato futuro, pace guerra, apertura chiusura, notte giorno – non decompone l’unità sostanziale della sua divinità e l’essergli consacrato il mese di Gennaio che è la porta dell’anno, mentre per i Romani l’anno cominciava a primavera, mostra che abbiamo qui un riferimento  alla Tradizione Primordiale rappresentata dall’unità dei due aspetti o se si vuole da una terza faccia di Giano che non è visibile, nè può esserlo, in cui si neutralizzano le due visibili.”

Ed ancora: “Il Medio Evo occidentale comprese perfettamente ciò che era realmente Roma e solo colla scissione della seconda tradizione e col costruirsi delle varie nazionalità si smarrì il senso sacro dell’Urbe e l’Occidente s’imbestiò nel particolarismo dei popoli non più accentrati da un segno sovrano; Roma rimase e rimarrà inviolata, gelosamente custodita dal segreto dell’asse bifacile di Giano e i popoli d’Occidente solo a lei tornando prolungheranno ancora il loro crepuscolo che prelude alla notte artica in cui s’estinguerà l’ultimo ciclo. (…) L’universalità della Tradizione Romana consiste in ciò e in null’altro, nella bifrontalità di Giano che è l’unità delle due vie, l’una, dirà Dante, che guida al Paradiso Terrestre e l’altra al Paradiso Celeste: il nome occulto di Roma contenuto nel centro invisibile di Giano è l’unificazione di queste due vie e la risoluzione delle due forme tradizionali nell’asse unico della Tradizione Primordiale.”.

Occorre rileggere Guido De Giorgio qualora si voglia fissare le basi di una dottrina autenticamente tradizionale dell’Occidente….

DAGOBERTO BELLUCCI

Guido De Giorgio , “La Tradizione Romana”, Ediz. “Mediterranee”, Roma 1989 (1.a ediz. 1973).