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LA STRATEGIA DELLA TENSIONE E IL PARTITO DEL GOLPE IN ITALIA – STORIE DI ORDINARIA INGERENZA ATLANTICA

6 Dic

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE E IL PARTITO DEL GOLPE IN ITALIA – STORIE DI ORDINARIA INGERENZA ATLANTICA

–         di Dagoberto Bellucci

“Un colpo di Stato consiste nell’infiltrazione di un piccolo ma fondamentale segmento dell’apparato statale che viene poi utilizzato per spostare il governo dal suo controllo”

 

( Edward Luttwak,Colpo di Stato: un manuale pratico, Harvard University Press, 1969 )

 

 

 

 

 

 

 

“Tecnica del colpo di Stato” è un volume pubblicato a Parigi nel1931 a firma dell’ebreo Curzio Malaparte (alias Kurt Erich Suckert ) e uscito successivamente in Italia dopo la guerra mondiale.

Nel testo sono narrate le principali tecniche di quella che, a tutt’oggi, viene definita nei “manuali” di strategia politica come un’azione violenta e illegale posta in essere – si badi bene – da un potere dello Stato e diretta a provocare un mutamento della forma del regime vigente.

Il volume dell’ebreo Suckert – ripubblicato quest’anno per i titoli della casa editrice “Adelphi” – fu all’epoca un attacco frontale contro i totalitarismi, rosso, nero o bruno che fossero, dominanti la scena mondiale tra le due guerra mondiali.

Non stupisce che sia stata proprio la casa editrice milanese che fa capo a Roberto Calasso a riproporlo al suo pubblico….basterebbe rileggersi anche solo velocemente il volume di Maurizio Blondet sugli “Adelphi della dissoluzione” per comprenderne chiaramente il perché un volume del genere possa ampiamente far parte della ‘biblioteca’ adelphiana.

Se esiste un ‘fil rouge’ che lega Calasso ed il suo gruppo editoriale agli ambienti di quella finanza laica – rigorosamente antifascista quanto altrettanto snob e ‘radical-chic’ da detestare l’ortodossia ed il monolitismo di segno opposto –  che faceva riferimento al Gruppo della Comit ed a figure quali Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia; questo è l’odio riposto nei confronti dei due partiti-Chiesa usciti vincenti nel dopoguerra, la DC di De Gasperi e il PCI di Togliatti.

Un libro “maledetto” o, forse meno prosaicamente, un testo ante-litteram per quella che, dal secondo dopoguerra mondiale ad oggi sarebbe diventata una delle principali, se non la principale senz’altro la ‘preferita’, modalità d’azione di tutta la politica estera statunitense

Il testo si presenta come una spietata dissertazione delle diverse tipologie di colpi di Stato che l’autore prende in esame: la rivoluzione bolscevica del 1917 , i tentativi di putsch della destra tedesca nei primi anni Venti e l’esperienza fascista italiana.

“Il tema è come si conquista e come si difende uno Stato, la novità analizzata è la tecnica del colpo di Stato, il cui esempio luminare è quello bolscevico del 1917, opera -secondo Malaparte- più di Trotsckji che di Lenin e che non è dipeso da nessuna condizione sociale ed economica, ma solo dalla tecnica insurrezionale adottata. Gli sviluppi raccontati sono l’esempio di come si difende uno Stato, quello altrettanto esemplare dello scontro tra Stalin e Trotsckji e della vittoria del primo nel 1927, che aveva capito la tecnica adottata dieci anni prima dal rivale, e l’esempio del colpo di Stato fascista in Italia, del quale quello hitleriano in Germania è solo una caricatura. Malaparte, da un lato, stimola la borghesia a difendere lo Stato dai pericoli dei catilinari di destra e di sinistra, mentre dall’altro sembra suggerire ai catilinari o presunti tali come affinare la loro tattica se vogliono far riuscire i loro tentativi. E’ forse questa la ragione per cui il libro fu inviso ai dittatori, chiamati direttamente in causa, essendo il libro pubblicato nel 1931 e poi ristampato dopo la guerra nel 1948, ma anche ai borghesi e ai sinceri democratici, per le nudità del sistema democratico che rivelava. La tecnica del colpo di stato implica l’impiego sotto un’unica regia di un gruppo limitato di uomini tecnicamente competenti e determinati, o meglio spietati, non masse enormi e battaglie campali; richiede l’occupazione dei luoghi nevralgici dello Stato e del suo apparato organizzativo, non del Parlamento o delle Istituzioni; richiede di prevenire la possibilità che lo sciopero generale dei lavoratori e dei produttori sia utilizzato contro il colpo di Stato stesso, e qui vengono analizzati i casi differenti di Bauer che sventa il colpo di Stato di Kapp proprio grazie allo sciopero generale e lo scontro finale con le organizzazioni sindacali da parte delle squadre d’assalto fasciste di Mussolini, senza aver piegato le quali sarebbe stato impossibile per il fascismo fare il colpo di stato in Italia. Profetica per alcuni versi, ma non per altri, l’analisi dell’hitlerismo e della conquista del potere da parte di Hitler in Germania, avvenuta per via elettorale, ma poi una volta al governo consolidatasi come la dittatura più spietata di tutte”. (1)

Comprensibile che il libro finisse tra quelli bruciati dai nazionalsocialisti, fosse detestato da Trotskij e dal suo antagonista Stalin e poco amato da Mussolini.

Sarebbe necessario chiarire subito, sgombrando immediatamente il campo dagli equivoci, che le affermazioni ‘introduttive’ circa l’esperienza del Fascismo italiano e quella del Nazionalsocialismo tedesco – e per certi versi pure sullo stesso “golpe ebraico” condotto da Lenin nel 1917 nella Russia zarista – siano quantomeno relative e rientrino in un ambito non difforme da quello che pervase l’intera letteratura marxista sul fenomeno europeo delle Rivoluzioni Nazionali concepite esclusivamente come veri e propri colpi di coda dei sistemi capitalistici se non addirittura convergenti con le esigenze proprie del capitalismo in determinati momenti di crisi per salvare sé stesso: la storia dirà esattamente il contrario quando le demoplutocrazie capitaliste dell’Occidente scateneranno la guerra d’aggressione all’Europa dell’Ordine Nuovo in questo aiutate e sostenute ampiamente dall’URSS di Stalin.

Ma torniamo in ‘tema’: che cos’è esattamente un “colpo di Stato” – un coup d’ètat, un ‘alzamiento’ o ‘pronunciamiento’, un putsch o, nella ‘dizione’ che ha maggiormente avuto ‘fortuna’ – un Golpe?

Un colpo di Stato è la tecnica per il rovesciamento dello status quo, la deposizione extragiudiziale di un governo, il mutamento di una situazione politica.

Di norma dovrebbero tentare di rovesciare lo status quo politico e istituzionale di una nazione quelle forze che si trovano all’opposizione; è in questo contesto – e solo in questo – che potremmo definire “colpi di Stato” le rivoluzioni di Lenin e Mussolini che portarono alla formazione a Mosca e a Roma dei regimi totalitari sovietico e fascista.

Tecnicamente invece Adolf Hitler ed il NSDAP furono incaricati della formazione di un regolare governo il 30 Gennaio 1933 dopo aver dimostrato di essere la principale forza politica della Germania di Weimar a partire dai primi anni Trenta ( Hitler aveva tentato il putsch di Monaco nel 1924 ma, come tutti sanno, il ‘colpo’ fallì e portò il futuro Fuhrer del Terzo Reich in prigione…da allora – e seguendo una linea di condotta ideologico-politica lineare e coerente con quelli che furono gli indirizzi programmatici per la conquista del potere delineati nel “Mein Kampf” – il Nazionalsocialismo perseguì la via elettorale partecipando alla vita politica nazionale tedesca fino alla conquista del potere).

A rigor di logica quindi né Lenin, né Mussolini e tanto meno Hitler effettuarono colpi di Stato ma mutarono lo status quo attraverso dinamiche rivoluzionarie distinte che non andremo ad analizzare in questa sede.

Chi invece ha utilizzato massicciamente l’arma del ricatto golpista , facendo leva su una serie di fattori convergenti con i propri immediati interessi economici, sono stati dal secondo dopoguerra ad oggi gli Stati Uniti d’America i quali pur proclamandosi una “democrazia” parlamentare (in realtà gli USA sono una plutocrazia dove una minoranza di oligarchi detiene le redini del potere reale sia politicamente che economicamente dominando sul resto della popolazione americana che ignora l’esistenza di un autentico governo-ombra formato da quell’Establishment finanziario e capitalistica strutturato in entità semi-pubbliche quali il Council on Foreign Relations,la Commissione Trilaterale, le varie organizzazioni sinagogico-sistemiche pro-sioniste, le lobbie’s di pressione economiche, le logge massoniche e tutte le fondazioni che concorrono alla edificazione del Sistema di Potere americano) hanno sempre esercitato pressioni e utilizzato qualunque metodo pur di garantirsi quei privilegi che, nei quattro angoli del pianeta, venivano garantiti a Washington ed al suo sistema di sviluppo capitalistico-consumista da interessati e servili tenutari locali.

In America Latina soprattutto (il cortile di casa dello Zio Sam) ma anche in Africa, Vicino ed Estremo Oriente gli USA hanno così potuto finanziare in maniera indiscriminata qualunque genere di autorità: non importa se mascherata sotto i panni di un sistema democratico, monarchico o totalitario e se al potere vi fossero esecutivi composti da civili o militari; l’importante era che fosse conforme ai propri desiderata e affine ai propri interessi geo-strategici, economici, commerciali e militari.

Ingerenza. E’ questo l’aspetto più inquietante e visibile della politica estera statunitense dal dopoguerra mondiale ad oggi nei rapporti stabiliti dagli Stati Uniti nei confronti del resto del pianeta.

Un’attitudine determinata dalle linee-guida della politica estera USA – e non da altri fattori quali ad esempio l’emergenza della “guerra fredda” con l’URSS , che per gli americani ha rappresentato semplicemente un astuto espediente per controllare e pilotare a proprio vantaggio gli affari interni delle nazioni con le quali Washington ha stretto relazioni più o meno ‘amichevoli’ – a sua volta, come scrive John Kleeves (2), influenzata da due fattori: “…il modo in cui gli Stati Uniti sono organizzati politicamente all’interno, ed il carattere degli americani. Per quanto riguarda l’organizzazione politica interna c’è da dire che gli Stati Uniti sono un’oligarchia, e precisamente un’oligarchia basata sulla ricchezza. Gli Stati Uniti cioè sono un paese (…) dove una parte ben definita della popolazione (…) ha un dominio esclusivo sull’apparato dello Stato, sulla cosa pubblica. (…) Il secondo fattore che contribuisce a determinare la politica estera statunitense è il carattere degli americani. Ogni popolo ha nel carattere un elemento saliente, che domina su tutti gli altri e li condiziona. Questo elemento nel caso degli americani è chiarissimo: è l’ingordigia, l’avidità di cose materiali. Se fosse vero che l’uomo è un misto di materia e spirito, allora sarebbe giusto dire che gli americani sono fatti quasi esclusivamente della prima. Gli americani insomma adorano il danaro, che a loro non basta mai. Essi hanno come scopo nella vita quello di arricchire, uno scopo che in loro è del tutto fine a sé stesso. (…) Alla fine, visti l’organizzazione politica interna ed il carattere nazionale, gli Stati Uniti sono sinteticamente così descrivibili: un’oligarchia mercantile ossessivamente ed aggressivamente dedita ad aumentare la propria ricchezza.”.

Per mantenere il loro tenore di vita e per assicurarsi un predominio planetario – politico, economico, finanziario, tecnologico, culturale e militare – l’establishment che domina gli Stati Uniti è dovuto ricorrere a qualunque mezzo, utilizzando qualunque arma di ricatto, qualsiasi genere di pressione e ogni politica idonea che permettesse loro, ai plutocrati di Wall Street ed ai potenti oligarchi che guidano le multinazionali autentico motore dell’economia americana e mondiale, di perpetuare i loro traffici e mantenere sotto diretto controllo le nazioni , cominciando da quelle ‘ufficialmente’ “alleate”, e possibilmente aumentare i vantaggi derivati da relazioni internazionali stabilite essenzialmente in modo tale da condizionare pesantemente la vita politica e destabilizzare quella socio-economica altrui.

Gli USA infatti hanno sempre trattato i loro “alleati” come uno stato-invasore tratterebbe una nazione asservita: è questo l’aspetto decisamente più inquietante della politica americana come maturato anche nelle relazioni stabilite da Washington nei confronti dell’Europa occidentale all’epoca della guerra fredda e come evidenziato dalla innumerevole serie di attività sovversive e terroristiche progettate dalla CIA principale organismo di destabilizzazione per l’estero del governo americano.

La storia italiana compresa nel periodo tra la fine del secondo conflitto mondiale e la fine della guerra fredda ne è una lapalissiana conferma.

In quarantacinque anni di “guerra fredda” il nostro paese è stato trasformato in un grande capo di battaglia – vero e proprio ‘risiko’ geostrategico funzionale alle diverse forme e tecniche di sovversione – da parte dei servizi d’intelligence americani coadiuvati dai loro colleghi italiani ai quali si devono ascrivere tutta quella serie di inquinamenti, insabbiamenti e occultamenti della verità che furono commessi dal Sismi e dal Sisde nel trentennio compreso tra i primi anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta e che rientrano in quella pagina oscura della nostra storia politica che prende il nome di “strategia della tensione”.

Quando sosteniamo che l’Italia fu un enorme laboratorio politico occorre ricordare la triste stagione che, dal tentato “piano Solo” del 1964 e fino alle ultime stragi compiute a metà anni Ottanta, vide attiva quella vera e propria sovversione permanente elaborata e posta in essere dagli americani contro qualsiasi ipotesi di spostamento dell’asse politico nazionale verso l’area dominata dal PCI all’epoca il più forte partito comunista del blocco europeo-occidentale ed una evidente minaccia per… “la sicurezza nazionale” americana.

Un’opera di sovversione quella messa in atto dalla CIA e dai servizi italiani suoi gregari che mirava a stabilizzare il quadro politico attraverso il ricorso ad attività di provocazione, infiltrazione e destabilizzazione commesse contro i comunisti e le organizzazioni sindacali e di sinistra con il deliberato scopo di far nascere nell’opinione pubblica italiana la richiesta di maggior sicurezza che si traduceva , in parole povere, nel ricorso ad uno stato d’emergenza …un colpo di Stato appunto.

La subalternità dimostrata dai nostri servizi di sicurezza rispetto a quelli statunitensi (che di fatto li formarono e crearono all’ “ombra” della democrazia soltanto nel 1949 dopo cioè l’affermazione democristiana nelle elezioni politiche del 1948 e l’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica) è stata ed è da considerarsi totale.

L’Italia non ha mai avuto una propria politica estera. Per quanto riguarda le decisioni principali – anche quelle dall’apparenza, ma solo dall’apparenza, contraddittorie che vennero prese sullo scacchiere mediterraneo dai suoi leader negli anni in cui imperversava il terrorismo internazionale – ed i contatti instaurati nelle direzioni più strampalate (Libia, Olp, ambienti del nascente fondamentalismo islamico, gruppi armati radicali dell’ultra-sinistra nazionale ed europea) si può tranquillamente affermare che se questa politica “autonoma” venne realizzata dai governi democristiani e socialisti ciò avvenne comunque con il consenso di Washington che sapeva e tollerava anche le “amicizie pericolose” intessute dai Moro, dagli Andreotti, dai Craxi e dagli altri dirigenti italiani con i Muhammar Gheddafi e gli Yasser Arafat.

Per dirla eufemisticamente con Henry Kissinger, ex segretario di Stato ebreo dell’amministrazione Carter e influente esponente dei circoli mondialisti del CFR e della Trilateral Commission, Muhammar Gheddafi era un “figlio di puttana” ma era…il ‘nostro’ (nel senso di Italia) figlio di puttana….

Gli USA avranno, sparsi nei quattro angoli del pianeta, altrettanti figli di ‘buona donna’ che alleveranno e coccoleranno altrettanto premurosamente…

Interessante a questo fine considerare attentamente come i vertici delle principali organizzazioni del terrorismo di estrema sinistra in Italia, cominciando dalle Brigate Rosse, fossero conosciuti dai servizi italiani che si limitarono spesso ad osservare lasciando fare quando serviva alzare la tensione politica nel paese. Questi uomini e queste organizzazioni furono ampiamente utilizzate dai servizi per i loro scopi come ammetteranno diversi esponenti anni dopo.

L’uso dell’infiltrazione politica alle estreme appartiene alla storia degli apparati di sicurezza da sempre: “la carriera di Ievno Azev, agente della polizia segreta zarista che si infiltrò all’interno di un gruppo rivoluzionario socialista, tanto abile da far dubitare della sua vera fede, è esemplare nel mostrare come sia difficile valutare la credibilità del singolo in un ambiente così oscuro come quello dei servizi segreti. I terroristi amici di Azev non riuscivano neanche ad accettare l’idea che lui lavorasse per il governo, tanto importante erano stati il suo apporto e la sua partecipazione agli attentati politici, compreso quello che costò la vita al capo dei servizi segreti stessi e al ministro degli Interni. Azev, nato nel 1869 e figlio di un sarto ebreo, divenne il capo dell’Organizzazione per la lotta dei socialisti rivoluzionari in seguito all’arresto dei suoi dirigenti; ma il fatto che a capo dell’organizzazione ci fosse un “agent provocateur” non interruppe la catena degli omicidi eccellenti. (…) Nel 1909 si scoprì che Azev era un infiltrato sin dal 1892 e che percepiva uno stipendio annuo di 14000 rubli. La sua carriera è un caso esemplare di doppia militanza” (3).

Il caso più eclatante,  per restare all’Italia, rimane quello legato ai traffici di armi clandestine tra l’Olp di Arafat e le B.R. italiane mediato, negli anni Settanta, dalla scuola francese “Hyperion” più o meno una sorta di “succursale” per l’estremismo di sinistra che si riteneva controllata dai servizi d’oltralpe dello Sdece.

L’Hyperion avrebbe rappresentato per l’estrema sinistra quello che l’Aginter Press rappresentava per l’estrema destra: un rifugio, un centro direttivo ed una centrale operativa.

Entrambe con ogni probabilità erano controllate dai servizi e quindi note anche, se non soprattutto, in ambito NATO.

Tra le inchieste portate avanti dalla magistratura italiana una riguardò proprio i legami Olp-BR-Hyperion: “L’indagine salì agli onori della cronaca nel 1984 con la clamorosa emissione di un mandato di cattura per Yasser Arafat, con l’accusa di aver autorizzato la vendita alle BR di numerosi carichi d’armi. (…) Il giudice ne ricavò però l’idea che il traffico tra le BR e l’Olp fosse stato protetto e forse addirittura promosso dai servizi segreti italiani e dalla Cia. Mastelloni non lo afferma chiaramente, ma vi allude in modo indiretto. (…) Uno dei modi migliori per i servizi segreti di controllare un gruppo terroristico è quello di gestirne il rifornimento d’armi. E’ significativo pertanto che le armi delle Brigate Rosse siano passate attraverso la mediazione di Hyperion, un gruppo sospettato di collegamento con i servizi segreti. Una figura chiave nel traffico d’armi tra i gruppi palestinesi in Libano e i terroristi italiani era il colonnello Stefano Giovannone, ufficiale del Sismi a Beirut, che aveva aiutato Abu Ayad nel depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. Un curioso episodio riportato dal giudice Mastelloni rivela la reazione di Giovandone all’arresto di due membri di Autonomia Operaia incriminati per essere stati trovati in possesso di un carico di armi ad Ortona nell’ottobre 1979. Giovannone convinse Georges Habash, leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp) a rilasciare un comunicato nel quale si affermava che le armi appartenevano all’Fplp ed erano di passaggio in Italia, un’operazione che aveva ricevuto l’approvazione dell’ambasciata italiana a Beirut. (…) Ancora più delicato il ruolo di Giovannone all’interno del traffico di armi tra l’Olp e le Brigate Rosse. Nell’estate 1979 Mario Moretti e tre suoi compagni partirono in barca per il Libano per ricevere dall’Olp un carico d’armi. (…) Le armi erano fornite gratuitamente ma un certo quantitativo doveva rimanere a disposizione dell’Olp e le BR dovettero impegnarsi a usare le altre in attentati contro bersagli israeliani o NATO. (…) L’inchiesta di Mastelloni stabilì che un lanciagranate Rpg7 indotazione delle BR proveniva da un laboratorio libanese di Al-Fatah e che i mitra Sterling facevano parte di una fornitura d’armi ceduta ad Al Fatah dal governo tunisino nel 1968. (…) Mentre proseguiva la sua indagine sull’Olp e le BR, Mastelloni scoprì l’esistenza di un traffico d’armi trilaterale tra il governo italiano e l’Olp e tra l’Olp e le BR, che descrisse come “paradossale”- La spiegazione fornita dai servizi segreti fu che il governo italiano aveva stretto un accordo con l’Olp in seguito agli attentati da questi compiuti nei primi anni Settanta, secondo il quale l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina era libera di continuare le sue attività in Italia purchè s’impegnasse ad impedire altri attentati contro bersagli italiani. E’ difficile credere ,tuttavia, che il traffico d’armi con le BR , il cui obiettivo era il sovvertimento dello Stato italiano, rientrasse nei termini di questo accordo. Ancora una volta, una spiegazione plausibile emerge dal rapporto di Mastelloni. In esso si delinea la tesi che Giovannone fosse stato incaricato dal governo italiano del ruolo di mediatore nei contatti segreti tra CIA e Olp e che tale incarico portasse, nel1976, aun accordo segreto trala CIAe i servizi segreti di Al Fatah. Molti diplomatici e ufficiali dei servizi segreti interrogati da Mastelloni invocarono il segreto di Stato. (…) La conclusione implicita, anche se non espressa, è che il traffico d’armi tra le due organizzazioni (Olp e BR ndr) dipendesse dall’accordo stipulato tra CIA e Olp.” (4).

E questo, ovviamente, è soltanto uno “spaccato” di cosa fossero le organizzazioni terroriste degli anni Settanta, di quali modalità operative e strategie si dotassero all’epoca i servizi di sicurezza (italiani e americani) e di come facilmente fossero controllabili e quindi influenzabili le dinamiche che muovevano i gruppuscoli dell’estremismo politico di destra quanto di sinistra.

Di una cosa si può essere certi: a ‘vincere’ la partita di quei drammatici anni di contrapposizioni ideologiche e violenza politica furono i “burattinai” atlantici i quali – secondo quanto stabilito a Yalta fin dal 1944 tra le potenze uscite vincitrici dal conflitto mondiale –  controllavano lo scacchiere italiano e operavano quelle pressioni dirette o indirette sui loro subalterni ‘tricolori’.

Occorre dunque qui ricordare anche le parole con le quali l’ex leader socialista Rino Formica , tra l’altro membro a suo tempo del Comitato parlamentare di controllo sull’attività dei servizi, accusava i nostri servizi, civili e militari, di “obbedire agli ordini ed ai disegni strategici degli americani.”.

“Nel 1974 il giornalista Massimo Caprara sul settimanale “Il Mondo” rivelò che “In base agli accordi Nato, il Sid è tenuto a passare notizie e ricevere istruzioni da una centrale apposita della C.I.A. che dipende direttamente dalla Presidenza degli Stati Uniti. Il nome in codice dell’ufficio ricetrasmittente negli USA è Brenno. Ancora. Un altro degli accordi Nato prevedeva l’istituzione degli Uspa ovvero degli Uffici Sicurezza Patto Atlantico. L’Uspa, presso il nostro ministero della Difesa, è sempre stato comandato dal capo del servizio segreto militare, ed è lui dunque che decide a quali personalità dello Stato si può concedere il famoso Nos, nulla osta sicurezza, che permette di accedere ai documenti segreti della Nato. In pratica sono sempre i servizi segreti a prendere una decisione che dovrebbe essere di carattere strettamente politico. (…) Le interferenze degli americani negli affari dei nostri servizi segreti diventano evidenti durante la gestione del generale Giovanni De Lorenzo. Ed è questo uno dei capitoli più scandagliati dai magistrati nella loro ordinanza. Il 27 dicembre 1955 De Lorenzo viene nominato capo del Sifar (vi resterà fino al 14 ottobre 1962: il periodo più lungo di permanenza al vertice di un servizio in Italia). La sua candidatura sollecitata personalmente dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, venne fortemente appoggiata da Carmel Office, “consigliere politico” del Dipartimento di Stato americano e collaboratore del capo della C.I.A. Allen Dulles. (…)  Fra De Lorenzo e i servizi americani i rapporti divengono immediatamente strettissimi e coincidono significativamente con la grande e triste stagione delle schedature a fini di ricatto politico. Schedature indiscriminate. Presso l’ufficio “D” del Sifar a partire dal 1959, vengono raccolti 157mila dossier, dei quali 34mila intestati a personaggi del mondo della politica, dell’economia, del sindacato. Gli americani sono perfettamente al corrente delle schedature politiche operate dal Sifar tanto che, mano mano che De Lorenzo “schedava tutto e tutti”, una copia del dossier veniva inviata anche ai servizi americani.” (5)

Una modalità che, come vedremo, sarà perseguita dalla CIA in qualunque quadrante geo-strategico ritenuto “vitale” per gli interessi nazionali USA: non deve affatto stupire quindi la sudditanza dimostrata dai servizi segreti italiani rispetto ai loro ‘colleghi’ dipendendo di fatto i primi dai secondi secondo linee fissate a livello politico e quindi d’intelligence e militare che appartenevano a tutti i paesi membri della NATO organizzazione dominata dagli Stati Uniti e di fatto punta di diamante durante la guerra fredda per tutte le loro strategie che, nella fattispecie, al di là di “controllare” il nemico sovietico tenevano in scacco principalmente la politica europea sottomettendo i diversi governi del Vecchio Continente a forme di sudditanza totali rispetto alla superpotenza a stelle e strisce.

Come venne spesso fatto notare l’Alleanza Atlantica, nata ufficialmente come organizzazione con scopi difensivi, non si comprenderebbe esclusivamente in base ad un ipotetico ruolo anti-sovietico ma avrebbe un senso solo considerando i  reali obiettivi di controllo e contenimento dell’Europa occidentale da parte americana.

Ed il suo mantenimento e allargamento verso Oriente a vent’anni dalla fine della cosiddetta guerra fredda conferma questa che non è affatto una semplice ipotesi quanto la risultante di una serie di politiche varate da Washington per  bloccare la crescita economica, condizionare la vita politica e imporre le proprie linee guida strategiche e militari al Vecchio Continente riunificato dopo il crollo del muro di Berlino e la scomparsa dei regimi del socialismo reale dell’Est.

L’esistenza di una rete clandestina “preposta a garantire con ogni mezzo la collocazione internazionale dell’Italia all’interno dello schieramento atlantico, anche nel caso che l’elettorato si mostri difforme” (6) –  l’organizzazione Gladio, filiale italiana della rete atlantica di Stay Behind –  così come tutte le misure approntate dagli americani fin dal dopoguerra per sbarrare la strada ad una eventuale vittoria elettorale del PCI dimostrano chiaramente chi realmente avesse il potere e come se ne sarebbe servito nel caso le vicende politiche nazionali non avessero seguito la direzione indicata e voluta oltreoceano.

I comunisti rappresentarono un’autentica ossessione per gli americani a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e fu per contrastarne l’avanzata elettorale che in Italia approntarono quella che lo stesso capo della CIA, William Colby, definì come “la maggiore operazione politica intrapresa dalla CIA fino ad allora” ossia prevenire e sbarrare la strada ad un successo comunista in un paese del blocco occidentale.

E’ quanto tutti , ai piani alti della politica, conoscevano perfettamente e – come Francesco Cossiga o Giulio Andreotti – si affrettarono ad occultare rimanendo fedeli all’arte tipicamente italiana di “obbedir tacendo” nei confronti dell’alleato americano il quale, già durante le ultime fasi della “resistenza”, aveva cominciato a selezionare i propri alleati nel campo dei partiti di tendenze democratiche costituendo organizzazioni clandestine ‘bianche’ dichiaratamente anticomuniste.

“Secondo Ray Cline, ex vicedirettore della CIA, il primo documento ufficiale registrato dal Consiglio Nazionale per la sicurezza, il 14 novembre 1947, fu l’Nsc/1 , un rapporto top secret dal titolo “La posizione degli Stati Uniti in rapporto all’Italia”. – scrive Philip Willan (7) – La preoccupazione americana circa l’esito delle elezioni del 1948 fu ingenerata da uno scritto di George Kennan, direttore del centro di pianificazione politica del Dipartimento di Stato, riportato da Cline nel suo testo “The CIA under Reagan, Bush and Casey”. Il 15 marzo 1947 Kennan scriveva: “Per ciò che riguarda l’Europa, l’Italia è indubbiamente il punto cruciale. Se i comunisti vincessero le elezioni, la nostra posizione nel Mediterraneo , e probabilmente in tutta l’Europa occidentale, correrebbe un grosso rischio”. Per Kennan i rischi erano davvero alti. Cline non aveva dubbi che la creazione dell’Ufficio per il coordinamento politico e l’affidamento alla CIA di operazioni politiche segrete “includesse sia operazioni paramilitari sia la guerra politica ed economica”. Cline individuava nel National Security Act del 1947 l’autorizzazione per le operazioni clandestine. In esso era stata inclusa una clausola elastica, onnicomprensiva, che riguardava le operazioni della CIA e “tutte quelle funzioni e quei doveri di competenza dei servizi segreti relativi alla sicurezza nazionale e soggetti, di volta in volta, al controllo del Consiglio Nazionale di sicurezza. (…) Per anni la Cia e alcune multinazionali americane avevano effettuato pagamenti di milioni di dollari a partiti italiani di destra e a personaggi politici che rivestivano ruoli determinanti per l’esito di certe elezioni “a rischio”.”.

Un paese privato della propria sovranità nazionale, economicamente e politicamente dipendente dalle scelte strategiche prese oltre-oceano e militarmente occupato da oltre un centinaio di basi sotto il controllo della NATO non aveva alcuna possibilità di fuoriuscire da quella logica da guerra civile innescata dagli organismi d’intelligence statunitensi e favorita grazie alla complicità dei loro colleghi e subalterni italiani.

Così dopo aver combattuto un conflitto civile tra fascisti e antifascisti all’indomani della guerra mondiale che aveva portato al crollo del Fascismo ed alla divisione in due sfere d’influenza del continente europeo,  un intero paese si ritrovò occupato e distrutto e la sua classe politica di fede democratica da allora fu indotta a perseguire esclusivamente strategie funzionali all’anticomunismo di Washington per mantenersi saldamente al potere.

L’anti-comunismo statunitense servì per coprire le politiche di asservimento dei paesi “alleati” degli Stati Uniti ovvero per preservare il sistema di vita interno statunitense e continuare l’opera di sfruttamento di tipo neo-colonialista e imperialista che in tutti i continenti doveva rispondere alle strategie della superpotenza a stelle e strisce che non solo comprendevano, qualora necessario, il ricorso al colpo di Stato ma, come in America Latina, la sua estensione quale metodo politico sovversivo di lotta al fine non tanto – e non solo – di “fermare l’avanzata del comunismo” , che sarà sempre e soltanto il pretesto maggiormente utilizzato dagli americani per i loro interventi negli affari interni di altri paesi, ma soprattutto e specificamente quello di mantenere lo status quo nei rapporti di forza esistenti tra il centro dell’Impero e le sue province o colonie di fatto.

Come dichiarerà Vincenzo Vinciguerra “In Italia è successo quello che è accaduto in Argentina, dove i capi dei Montoneros (i guerriglieri di sinistra ndr) avevano legami con la giunta militare. In Argentina e in Italia la logica era comune  e cioè creare organizzazioni ufficialmente dirette contro lo Stato, ma organizzazioni a loro volta capeggiate da uomini legati allo Stato” (8) e successivamente sostenendo che “Quando io faccio il parallelo tra l’Italia e l’Argentina non lo faccio soltanto per ragioni di logica, ma perché credo che vi sia un gruppo di persone che leghi la situazione italiana a quella argentina e dico che di quel gruppo di persone l’elemento conosciuto dal pubblico è Gelli.” (9).

In Italia non abbiamo avuto il “golpe” – come sperava, e per il quale ‘tifava’, una certa destra di fede atlantista durante il ventennio compreso tra i Sessanta e i Settanta – ma diversi tentativi e qualche velleità golpiste affiorarono e , come si usò dire e scrivere all’epoca, vi fu un certo “tintinnio di sciabole” con riferimento al “Piano Solo” del Gen. De Lorenzo del 1964 e passando successivamente per il Golpe Borghese del dicembre 1970, per il tentativo di colpo di Stato favorito dall’organizzazione “Rosa dei Venti” nell’agosto di quattro anni più tardi e per finire con il “Piano di Rinascita Democratica” della Loggia Propaganda 2 dominata dalla figura di Licio Gelli.

Per nostra fortuna possiamo dire che non abbiamo avuto dittature militari né alcun Augusto Pinochet “all’amatriciana” e, fortunatamente, nessun “desaparecidos” come avvenne in Argentina e , più o meno, in tutto il Centro e Sud America dove gli americani non lesineranno di militarizzare intere nazioni.

Malgrado ciò rimane – più o meno avvolta da una cappa di omertà e da quel vero e proprio muro di gomma di omissioni e falsità, mezze ammissioni e ritrattazioni – la percezione netta che l’Italia sia stata utilizzata a piacimento dagli Stati Uniti d’America come vero e proprio laboratorio politico all’interno del quale ‘provare’ soluzioni che potevano andare dal golpe militare ad una svolta autoritaria di “destra” passando per stragi di Stato, terrorismo, opposti estremismi e strategia della tensione.

In questa ottica rientrano anche l’omicidio targato CIA che portò alla morte di Enrico Mattei reo di essersi opposto allo strapotere delle multinazionali del petrolio per cercare una via autonoma alle esigenze di politica energetica del paese; l’assassinio di Aldo Moro – probabilmente eseguito dalle BR sotto la supervisione di CIA e Mossad che di fatto lasciarono campo libero per l’eliminazione di un politico scomodo per la sua politica filo-palestinese e che avrebbe portato i comunisti nell’area di governo attraverso il “compromesso storico” tra DC e PCI – e non dimenticando la fine politica ingloriosa riservata, con la stagione di Tangentopoli (‘golpe’ legalitario eterodiretto dalla Magistratura – organo dello Stato – contro i partiti della cosiddetta Prima Repubblica), a Bettino Craxi che scontò con un lungo e tormentato esilio in Tunisia l’ “affaire Sigonella”.

Anche Giulio Andreotti ‘pagò’ in termini politici – nel 1992 quando stava per diventare Presidente della Repubblica – le sue “simpatie” verso i palestinesi ed il mondo arabo: la sua corsa al Quirinale sarà interrotta dalle rivelazioni di alcuni pentiti di mafia su presunti “baci mafiosi” con il boss Totò Riina.

E non si dimentichi, infine, le stragi di Stato: dalla Banca Nazionale dell’Agricoltura all’Italicus, da Bologna a Ustica nei confronti delle quali sono state fatte tante, troppe, congetture e ilazioni, speso pagine e pagine di inchieste e atti giudiziari, rovinato la vita di migliaia di persone senza che – a distanza di trenta o quarant’anni – sia stata accertata la verità.

Analizzeremo compiutamente il colpo di Stato che vedrà cadere sotto le grinfie di Washington il Guatemala , dove nel 1954 verrà deposto il legittimo governo presieduto da Jacobo Arbenz Guzman, (dieci anni più tardi, all’epoca in cui in Italia si pensò ad attuare il Piano Solo, toccherà al Brasile di Joào Goulart) per il momento ci limitiamo semplicemente a sottolineare come il ricorso ai ‘pronunciamientos’ militari rappresenterà una costante della politica estera americana specialmente quella attuata in America Latina.

La “tentazione” golpista della CIA avrebbe comunque avuto altrettanto successo in Iran all’epoca di Mossadeq negli anni Cinquanta e nell’Indonesia di Suharto nel decennio successivo non dimenticandoci ovviamente la Grecia dei Colonnelli che servirà probabilmente agli americani per valutare le reazioni dell’opinione pubblica di determinati paesi del blocco europeo-occidentale rispetto all’opzione “militare” in primis ovviamente l’Italia.

La storia del secondo dopoguerra mondiale e della guerra fredda è ancora tutta da scrivere.

Molte verità ufficialmente negate dalle autorità italiane sono contenute in quella mole di atti “top secret” sui quali è stato posto il segreto di Stato perché una verità troppo scomoda rischierebbe di disintegrare le residue speranze e l’altrettanto esile fiducia riposta dall’opinione pubblica italiana nei suoi governanti.

Una verità lapalissiana che tutti conoscono anche se – a cominciare dai mass media compiacenti ed asserviti al Potere e finendo con i responsabili e gli ‘attori’ , primari e secondari, che furono involontari ‘protagonisti’ di quella oscura stagione politica e che spesso si rifiutano di parlare perché sanno quali sono i rischi di eventuali dichiarazioni – come vero e proprio segreto di Pulcinella tutti fingono di ignorare ossia che l’intera responsabilità per la violenza politica, la contrapposizione ideologica, le trame golpiste e la strategia della tensione che si è alimentata del sangue di decine, centinaia, di civili innocenti ricade – in ultima analisi – sui servizi di sicurezza italiani i quali non era affatto “deviati” come ci hanno sempre ‘raccontato’ i media (ce le ‘raccontano’ proprio ‘bene’ a noi italiani…l’ultima idiozia è quella che vorrebbe Mario Monti “salvatore” della Patria…) ma rispondevano ad una precisa logica e ad una altrettanto precisa strategia loro imposta dai loro “colleghi-padroni” della CIA statunitense.

Ed uno Stato, per quanto deficiente e irresponsabile qual è quello italiota, non può mettersi sul banco degli accusati, lasciarsi processare e condannare…Mai.

Noi affermiamo che niente avviene per ‘caso’….perchè…come sempre…il ‘caso’ non esiste.

Au revoir….

DAGOBERTO HUSAYN BELLUCCI

Direttore Responsabile Agenzia di Stampa “Islam Italia”

6 Dicembre 2011

Note –

1 )  Introduzione a Curzio Malaparte – “Tecnica per il colpo di Stato” – Edizione “Adelphi”- Milano 2011;

2) John Kleeves – “Vecchi Trucchi – Le strategie e la prassi della politica estera americana, dalle armi nucleari in Europa, all’asservimento dell’America Latina, al traffico internazionale di droga ed altro” – Ediz. “Il Cerchio” – Rimini 1991;

3) Philip Willan – “I Burattinai – Stragi e complotti in Italia” – Ediz. “Tullio Pironti” – Napoli 1993;

4) Philip Willan – Ibidem;

5) Pietro Calderoni – “Servizi Segreti” – Ediz. “Tullio Pironti”- Napoli 1986;

6) Giuseppe De Lutiis – “Storia dei servizi segreti in Italia” – Editori Riuniti – Roma 1984;

7) Philip Willan – “I Burattinai – Stragi e complotti in Italia” – Ediz. “Tullio Pironti” – Napoli 1993;

8 ) Vincenzo Vinciguerra – Dichiarazione al giudice istruttore Zorzi , Carcere di Rebibbia, 6 Maggio 1985;

9) Vincenzo Vinciguerra – Dichiarazione al giudice istruttore Rosario Minna, Carcere di Viterbo, 2 Dicembre 1986;

HONDURAS – CUESTIONES LATINOAMERICANAS DEL GOLPE DE ESTADO EN HONDURAS

6 Dic

CUESTIONES LATINOAMERICANAS DEL GOLPE DE ESTADO EN HONDURAS

Revista Pasos N° 143

mayo/junio 2009.

 

         
       1.- Antecedentes

    Honduras es un país centroamericano fronterizo con Nicaragua, El Salvador y Guatemala. Su población, más del 40% rural, es algo inferior a los 8 millones de habitantes. Es una de las tres sociedades más pobres de América Latina y el Caribe. Las otras son Haití y Nicaragua. El ingreso per cápita hondureño es de 2.793 dólares, pero propiedad e ingreso están muy mal distribuidos. En la mayor parte de este siglo, Honduras ha acentuado las diferencias de ingreso entre el campo y la ciudad y entre los grupos más opulentos y los más pobres (el 20% más enriquecido de la población capta 33 veces más que el 20% más empobrecido; en Uruguay, esta diferencia es de 10 veces). Casi un 60% de los habitantes hondureños está por debajo de la línea de pobreza y un 36.2% por debajo de la línea de pobreza extrema (indigencia). Recientemente, en los años 2005-06, Honduras consiguió ser admitido en la iniciativa para los países pobres muy endeudados (FMI/Banco Mundial) y cumplió con los requisitos para acceder a los beneficios de la Iniciativa Multilateral de Alivio de la Carga de la Deuda. Forman también parte de este grupo, entre los países latinoamericanos, Nicaragua y Bolivia. Acceder a los beneficios de la Iniciativa implica quedar sujecionado a las políticas económicas de las instituciones internacionales que la administran.

    Las diversas formas de poder social en Honduras tienen su eje interno en unas trece familias opulentas en relación con las cuales se mueven, con diferentes matices, las instituciones del Estado, los ‘poderes’ judicial y legislativo, los principales medios masivos, la jerarquía clerical y hoy, de nuevo, las Fuerzas Armadas. Se trata de un régimen señorial, oligárquico y ‘cristiano’ (cuyo otro eje es la inversión extranjera y el flujo económico internacional, que incluye las remesas de emigrantes) que se presenta como un Estado de derecho y realiza periódicamente, desde inicios de la década de los ochenta, elecciones (legislativas en 1980, presidenciales en 1981) que se valoran, y su población saluda, “democráticas”. Honduras es una de las ‘democracias’ implantadas por Estados Unidos en América Central en la década de los ochenta en su esfuerzo por aislar y debilitar los impactos de la revolución popular sandinista en Nicaragua y el progreso de la lucha revolucionaria armada en El Salvador. Por supuesto su existencia social y política nada tiene que ver con igualdad ante la ley (Estado de derecho), igualdad de participación e igualdad de riqueza que, como tendencias, podrían considerarse básicas para un régimen de gobierno democrático o para una sociedad democrática. Esto quiere decir que la ‘cuestión democrática’ no constituye el núcleo de los desafíos planteados por la crisis de junio-julio del 2009, desafíos potenciados por un golpe de Estado contra su presidente Manuel Zelaya. No lo es centralmente porque en Honduras nunca han existido las condiciones sociales ni políticas que posibilitan una institucionalidad democrática.

    Con independencia de su carácter oligárquico, ‘cristiano’ y su tradición dictatorial, aunque vinculada a estos factores, la sensibilidad política de los grupos dominantes en Honduras sería cómica si no fuese por sus efectos sociales dramáticos. En los años 80 del siglo recién pasado se cultivó la idea de pasar a ser un Estado Libre Asociado de Estados Unidos, tal como Puerto Rico. Como la ocurrencia no prosperó en el país que debía aceptar el “obsequio” (administración Reagan) en los noventa se abrazó, por los “partidos” Nacional y Liberal (son solo nombres para apetitos), el modelo neoliberal, lo que inevitablemente concentró aun más la riqueza y aumentó el empobrecimiento de los sectores vulnerables al mismo tiempo que enflaquecía a sectores medios. El esquema ‘tecnócrata’ (solo otro nombre) tuvo sin embargo un logro: abolió, hacia la mitad de la década de los noventa, el servicio militar obligatorio y buscó reestructurar las Fuerzas Armadas para que dejaran de ser un sector relativamente autónomo de clase y se refuncionalizaran como el “brazo armado” del poder oligárquico. Por supuesto, esto no las hace más profesionales, pero les quita capacidad para disputar los buenos negocios o apoderarse de ellos. Las reformas en la institucionalidad militar culminaron en 1998 con una cláusula constitucional que hace que el Presidente hondureño sea el Comandante en Jefe de las Fuerzas Armadas. Los militares que el 28 de junio (2009) asaltaron y capturaron al Presidente en ejercicio de su país, para luego expulsarlo de Honduras, “no podían hacerlo” (en términos normativos) porque éste era, en una institución de mando vertical, su máximo jefe. Solo podrían haber actuado así si el Presidente Zelaya se los hubiese ordenado. O si deseaban romper la institucionalidad. Situación que, en efecto, consumaron.

    La economía hondureña es una economía muy abierta centrada en la exportación de productos agrícolas (café, banano, caña de azúcar, madera) y manufacturas. Esto la torna extraordinariamente vulnerable no solo a una crisis recesiva global (o estadounidense), sino a presiones económicas determinadas por razones políticas, como la suspensión de giros que resolvió realizar el Banco Mundial debido al golpe militar y empresarial de junio/julio. De hecho, si los países centroamericanos, Estados Unidos, el FMI y el Banco Mundial, resolvieran cortar todo tráfico con Honduras, excepto ayuda humanitaria, tanto la economía como los aparatos militares hondureños se desquiciarían aceleradamente. Honduras es extraordinariamente sensible a su entorno internacional y carece de la capacidad para crear escenarios alternativos si éste se torna abiertamente hostil. El capital extranjero (Zonas Francas) aposentado en su territorio sería incluso un potencial aliado de un bloqueo (o huiría) debido a la disparidad de fuerzas en pugna.

    Honduras es uno de los países ubicados en la Cuenca del Caribe. Esta cuenca es valorada geopolíticamente por Estados Unidos como una de sus fronteras estratégicas. Es un área particularmente sensible por tratarse de una frontera marítima y porque por el Mar Caribe se mueve una parte significativa del comercio estadounidense, del tráfico de drogas que EUA dice querer combatir y porque constituye, además, un espacio que podría proveer importantes reservas de petróleo. Históricamente y para atender su control estratégico (quiere decir las condiciones para la reproducción de su dominio mundial) en la zona, EUA mantuvo bases militares y de espionaje en Puerto Rico, Cuba, y Panamá. Ha abandonado las de Panamá (1999) y Puerto Rico (2004), aunque sin perder en este último país las facilidades de espionaje y adiestramiento militar, y ha ido trasladando instalaciones y fuerzas militares a Texas, Florida y Miami. Durante este período, y en parte ligadas al “Plan Colombia”, creado en 1999, se han instalado nuevas bases en Ecuador, Aruba, Curazao y El Salvador.

    Honduras posee una base militar con control estadounidense, la Soto Cano, en la que se realizan tareas de espionaje y preparación de grupos militares estadounidenses y locales. En relación con la geopolítica estadounidense, el espacio de Honduras ha sido utilizado para dos grandes ‘operaciones’ de “estabilización” en el área centroamericana. Desde el territorio hondureño, durante la Guerra Fría, salió el grupo armado financiado por Estados Unidos que derrocó a Jacobo Arbenz (Guatemala, 1954), presidente electo que intentó una reforma agraria en su país y, en la década de los ochenta, Honduras sirvió como base militar para la guerra que socavó el proceso popular revolucionario sandinista. Las dos situaciones muestran que la oligarquía que controla el país se siente a gusto atendiendo los requerimientos de Estados Unidos, o sea desempeñando a cabalidad su papel de “república del banano”. Estados Unidos, por su parte, también se siente a gusto utilizando y despreciando a sus “socios hondureños” y entrenando a sus aparatos militares, que poseen una probada voluntad anticivil y antipopular, para que defiendan “el mundo libre”.

    El ángulo geopolítico (que liga históricamente a la oligarquía hondureña y a sus militares más con el Pentágono y su personal conspirativo permanente que con la administración presidencial de Estados Unidos) tiene importancia para comprender la ambigüedad relativa de la administración Obama ante el golpe militar del 2009. También el ángulo geopolítico permite entender a Honduras como un territorio de experiencias-piloto de lo que algunos sectores de Estados Unidos desean para América Latina.
    Pese a su historia de dominio oligárquico y transnacional, y también en parte a causa de  él, la población hondureña ha resistido la explotación y la exclusión con organización social y movilizaciones de lucha. Desde 1964, y pese a que la organización sindical ha sido considerada “subversiva”, existe una Confederación de Trabajadores de Honduras, afiliada a la Organización Interamericana de Trabajadores (ORIT), que coexiste con una Central General de Trabajadores, la Federación Unitaria de Trabajadores, la Federación de Sindicatos de Trabajadores de Honduras y la Federación Independiente de Trabajadores. También existen organizaciones en el sector agrario: el Frente Nacional de Campesinos de Honduras, el Sindicato de Trabajadores de la “Tela Railroad Company” (alias hondureño de la United Brands) y el Sindicato de Trabajadores de la Compañía Agrícola y Ganadera de Sula que, con los trabajadores organizados de la Tela Railroad, enfrentan los vaivenes de la producción bananera. El Movimiento Cooperativo (jurídica y constitucionalmente forjado entre 1921 y 1987) se ha dado una Confederación Hondureña de Cooperativas (1971) que se orienta actualmente a entregar respuestas locales a los desafíos globales.

    Los grupos sindicalistas (Bloque Popular), activistas de Derechos Humanos, periodistas, taxistas, escritores y artistas, maestros y profesores, y el Frente Nacional de Resistencia Popular y Vía Campesina Honduras, destacaron en la resistencia inicial interna al gobierno empresarial/militar encabezado por Roberto Micheletti. Las organizaciones campesinas han preparado, además, marchas hacia las ciudades para reforzar esta protesta. Lo hacen, como muchos otros ciudadanos y trabajadores, no por ser “gente del presidente Zelaya o partidarios liberales”, sino, como enfatiza un dirigente de la Vía Campesina hondureña, porque ven en su presidencia un factor que les permitiría derrotar el modelo neoliberal. Señalan que Zelaya ha detenido el proceso de privatizaciòn de activos públicos hondureños, como la energía eléctrica, los puertos y el sistema de salud y, más importante, se ha pronunciado a favor de un régimen democrático que apodere la participación ciudadana y social de la población en las determinaciones políticas. El último punto contiene potencialmente una profunda transformación de la institucionalidad oligárquica del país.

    Sobre esta situación, el insospechable Banco Mundial, reseñando favorablemente el programa original del presidente Zelaya, lo puntualizó de la siguiente forma: crecimiento económico con equidad; gobernabilidad vía la modernización del Estado y la participación ciudadana; protección ambiental y gestión de riesgos (Honduras es un país boscoso y por su territorio pasan huracanes), y desarrollo del capital humano (educación, salud). A la reseña del Banco Mundial habría que agregar que, poniéndose a tono con la sensibilidad gestada principalmente por el proceso venezolano en este siglo, a la participación ciudadana se la articuló con la participación social. El gran “defecto” de Zelaya para los diversos grupos tradicionales (nacionales, liberales, jerarquías clericales, magistrados, aparatos armados, medios masivos, parlamentarios, y, probablemente la embajada de Estados Unidos en Honduras, que, en este caso, no necesariamente representa a la administración Obama) es que asume que el necesario proceso de “modernización” del país debe incluir la participación social y ciudadana de la mayoría de su población. Inclusión social y ciudadana universal. Los posicionamientos respecto de este punto antioligárquico (que no es ni socialista, ni anticonstitucional, ni una chifladura, ni un intento de entronizar una dictadura) condujo al enfrentamiento que culminó con un golpe de Estado. El punto de la “cuarta urna”, en la que la ciudadanía podría pronunciarse sobre la necesidad de convocar a una eventual nueva Constitución es, visto aisladamente, un detalle en procesos más amplios.

    No se trata, por tanto, de la opción “bolivariana” o “chavista”  de Zelaya, o de la amistad y admiración que manifiesta hacia el proceso cubano por su carácter nacional/inclusivo, sino que su propuesta desafía el eje local del statu quo hondureño: la dominación oligárquica, por definición excluyente, aderezada en este último período con ‘tecnocráticas’ prácticas neoliberales en las que ‘el’ mercado determina ‘ganadores’ y ‘perdedores’. Zelaya estima que bajo este modelo Honduras no llegará nunca a ser competitivo. Y tal vez valora que estar en la presidencia, o tener a ésta bajo su control, le permitiría ocupar un lugar preferencial en el nuevo modelo. Esto abre, sin duda, un complejo y crispado frente (de intereses y personalidades) al interior de la oligarquía.

    El problema que enfrenta el presidente Zelaya es que no ha realizado el trabajo sociopolítico que le permitiría avanzar en su idea modernizadora. Por eso los trabajadores organizados, probablemente una minoría, lo defienden, pero no le tienen especial confianza ni estima. Algo parecido ocurre con otros sectores populares que “huelen” que una dictadura empresarial-militar encabezada por Micheletti u otro, y el pseudo régimen ‘democrático’ que le sucedería, es mucho peor para sus intereses que el gobierno ‘democrático’ de Zelaya. Un sector de la población hondureña está asimismo contra los golpistas porque defiende ‘la’ democracia. Pero si, mágicamente, los golpistas mejoraran las condiciones de existencia, esta ciudadanía respaldaría con entusiasmo su mandato. Esta tibia y ambigua relación entre sectores sociales populares, el presidente Zelaya y las instituciones democráticas puede tener alcances negativos para la resolución de la actual pugna. Sin embargo la violenta represión contra los opositores y manifestantes, y la directa arremetida contra derechos humanos (tránsito, expresión, derecho a la información, por ejemplo) podría acercar y fortalecer el carácter de movimiento social popular de estos actores. Por supuesto, los golpistas carecen de todo interés (y, por sus intereses inmediatos, también de factibilidad) para realizar las acciones que podrían al menos paliar, si  no mejorar, las actuales condiciones de existencia de los hondureños.

    Que lo que está en juego en Honduras, juego que exigió un golpe de Estado, es una cuestión de reproducción o cambio del actual statu quo por parte de actores oligárquicos, lo expresan bien dos funcionarios situados, uno en el bando de los golpistas y el otro, en la decapitada administración de Zelaya. Para el primero, Comisionado o Procurador de Derechos Humanos, Ramón Custodio, las razones para expulsar a Zelaya del gobierno son:

     a) no haber presentado en el año 2008 el presupuesto nacional para su aprobación en el Congreso;

     b) el proyecto de la cuarta urna “que no se sabía qué era en esencia, si un plebiscito, un referendo o qué” (se trataba de una consulta no vinculante). Para Custodio, esta cuarta urna implicaba desconocer a los otros poderes y esto demuestra

     c) que “Zelaya venía comportándose como un usurpador del poder público”. Según el Procurador, “(la usurpación) autoriza el derecho a la insurrección y ese derecho se ejerció”. Por ello no se trató de un golpe de Estado sino de una sustitución constitucional.

    Siempre para Custodio, lo poco bueno que hizo Zelaya fue: elevar el salario mínimo de los trabajadores a un “nivel razonable” lo que sin embargo obligó al cierre de empresas pequeñas y medianas que no pudieron compensar la carga salarial. Custodio califica como “vil” la estrategia de Zelaya para manejar la pobreza, porque se hizo sin proyecto y malgastando el dinero público. Preguntado por el periodista costarricense sobre la influencia del ALBA sobre Zelaya, contesta: “Zelaya venia concentrando mucho poder y el poder absoluto corrompe. El ALBA en Honduras casi no tiene influencia, pero controla 25 de los 30 miembros del consejo (sic) de la OEA. Con esos votos, su secretario general (sic) José Miguel Insulza, tiene asegurada su reelección”. Como el periodista vuelve a preguntarle por qué entonces se tiene tanto temor al ALBA en Honduras, Custodio contesta: “Todo mundo escuchó a Zelaya cuando salió con el presidente de Venezuela, donde Chávez levanta el puño y dice “Vamos a invadir Honduras”. Cuando alguien anda haciendo eso (…) se está convirtiendo en cómplice de una persona que amenaza a la patria y por ello se vuelve también responsable del delito de alta traición a la patria” (1).

    Por su bando, el exDirector de Ingresos de la administración Zelaya, Armando Sarmiento, estima que Zelaya se “fraguó odios poderosos”, debido a un temor irracional de la derecha a que implantase un régimen similar al de Hugo Chávez. Fuera de este temor irracional, tocó intereses de las transnacionales del petróleo para favorecer a los consumidores, importó medicamentos genéricos desde Cuba afectando a los negocios de este sector, aunque favoreció igualmente a los consumidores, y elevó el salario mínimo de 182 dólares a  291, irritando a los empresarios. Todo esto le generó un frente en su contra en el sector privado. Preguntado acerca de si el gobierno de Zelaya era “bueno”, Sarmiento contesta que desde la óptica de los sectores populares sí, y desde el sector privado, no. Zelaya habría focalizado el gasto para atender la pobreza, estableció un sistema de cajas rurales para otorgar crédito a los campesinos, mantuvo una actitud clara hacia el ambiente natural que hizo que los ambientalistas lo respaldaran (las empresas mineras desde luego se disgustaron). También profesionalizó la administración tributaria, lo que permitió “una recaudación tributaria inédita”.

    En cuanto a los errores, Sarmiento puntualiza: desligarse de su base partidaria y virar “hacia la izquierda”. Fortalecer presupuestariamente al ejército y “sacarlo del olvido”. Interrogado por el periodista acerca de la influencia del ALBA de Hugo Chávez, contesta: “El presidente (…) decidió acercarse a Venezuela para obtener ventajas en la importación del combustible sin deseos de constituir una alianza política”. No era una alianza política, “sino comercial como la que se puede realizar con cualquier país del mundo”. Para el funcionario, “Zelaya es un convencido de un equilibrio entre la libre empresa y la justicia social (…) su travestismo político (…) es una mezcla de convicciones construidas por su entorno íntimo y un realismo político que se constituyó en búsqueda de alternativas para financiar el gasto social”. (2). Puntualiza que no existió apoyo militar de Venezuela a Honduras, ni intervención en asuntos internos, no se cerró ningún medio de comunicación ni se perturbó a periodistas o dueños de medios por sus opiniones, no se nacionalizó ninguna empresa. Lo que Zelaya obtuvo del ALBA fue “petróleo barato, recursos para combatir a la pobreza, una retórica agresiva en política exterior y unificar a la derecha. Esa fue la verdadera influencia del ALBA, el resto es paranoia”.

    Custodio concluye: el ALBA revivió el fantasma del comunismo y “unificó a la derecha más conservadora: las cámaras de comercio, los medios de comunicación, el ejército, la iglesia católica (y) evangélicas”.

    No se trata aquí de quien tiene más razón o razón, si el golpista o el exfuncionario de gobierno. Ambos narran una situación común desde posicionamientos diversos y encontrados. Interesa específicamente, en cambio, la cuestión del golpe de Estado. Para ello, se puede tomar la opinión de Custodio. Según él, Zelaya “se portaba como un usurpador” en relación con los otros poderes públicos y también cometió “alta traición a la patria”. Seguramente, delitos o inconstitucionalidades. Lo que correspondía en un Estado de derecho era notificarle procesalmente esos delitos, arrestarlo si era del caso, y proceder con el juicio legal o constitucional pertinente. En lugar de esto, Zelaya fue secuestrado por militares y expulsado del país. Y, cuando intentó retornar, se impidió su acceso bloqueando la pista de aterrizaje. Si contra él existían jurídicamente cargos, ambas acciones, la expulsión y el impedimento de retorno, resultan inconsistentes. Al presunto o efectivo ‘delincuente’ se le permite retornar (más, se extiende una orden de captura internacional contra él y se le trae) y se le notifica y apresa. Si tiene partidarios que lo defienden, no se dispara contra ellos, sino que se les notifica también. Si se han enardecido los ánimos, se espera el momento oportuno para esas acciones o se lo provoca. Como nada de esto último se dio, parece incontestable que el conflicto contiene factores político/ideológicas y que contra Zelaya se realizó una maniobra que puede caracterizarse como golpe de Estado. En este golpe concurrieron empresarios, políticos/empresarios, funcionarios del sistema, militares e iglesias. A los medios masivos que denunciaron el golpe se les censuró o se autocensuraron, principalmente mediante coacción militar. A los medios que promovieron el golpe (que fue un proceso extendido) se les encargó la tarea de difundir la versión oficial/golpista de él: no existió golpe ninguno. Lo que se dio fue una sustitución constitucional. Pero acciones claves de los enemigos de Zelaya tienen los caracteres propios de un golpe. Por ello, con independencia de todo otro alegato o racionalización, sí existió un golpe de Estado. Y la consideración de algunos de sus alcances, que no se restringen a Honduras, constituye el centro de la discusión.

    Todavía una referencia acerca del entorno centroamericano. El suceso inmediato regional más reciente, antes del golpe de Estado en Honduras, fue la investidura presidencial, a inicios de junio y en El Salvador, de Mauricio Funes quien compitió electoralmente por el Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional. El mandato de Funes termina con veinte años de dominio electoral de la Alianza Republicana Nacionalista (ARENA) que reúne en su dirección a los sectores oligárquico/empresariales y conservadores del país y, para efectos de sufragio, a sus diversas clientelas ciudadanas y sociales. La presidencia de Funes despierta recelos oligárquicos y estadounidenses por su vínculo con el FMLN cuya acción político-militar condensó los intereses populares en la guerra interna (1980-92) que finalizó precisamente con acuerdos que legalizaron y tornaron parlamentario su accionar político. Los recelos oligárquicos conducen a “consejos” que, vistos los sucesos de Honduras, pueden ser valorados como advertencias: el principal es “Mire Funes, usted puede ser “progresista”, pero dentro del statu quo. Nada de tocar los núcleos duros del control oligárquico y transnacional, nada de chavismo, nada de veleidades clasistas o esfuerzos de proponer una nueva Constitución. Nada de democracia participativa tampoco”.

    El golpe en Honduras constituye, visto así, y desde la perspectiva de las fuerzas dominantes, una lección para la presidencia de Mauricio Funes y para el resto de América Latina. El FMLN puede haber ganado las elecciones, pero no tiene el poder. El poder no está en juego en las elecciones. Los gobiernos  civiles carecen de autonomía se apeguen o no a la legalidad. Los regímenes ‘democráticos’ de la región centroamericano no admiten opciones sociales, políticas ni culturales de inspiración popular. Su institucionalidad debe ser asumida como la propia de democracias restrictivas. En ellas, los aparatos armados podrían retornar como un factor decisivo para decidir sobre la legitimidad de la institucionalidad y su aporte al orden global. Obviamente queda pendiente la factibilidad de este programa y cómo se aplicaría al resto de América Latina. O tal vez allí la referencia sea el Plan Colombia.
 

    2.- Relaciones entre Estado de derecho, régimen democrático de gobierno, sociedad oligárquica y globalización

    Las instituciones de un régimen democrático moderno tienen su asiento en un Estado de derecho. Este último debe garantizar, con independencia de otros factores que no pueden considerarse aquí (3), el imperio de la ley (en su alcance jurídico positivo) y el reconocimiento de derechos fundamentales o ‘humanos’ para la población. El segundo punto puede relativizarse por situaciones excepcionales contempladas jurídicamente, pero el primero es insoslayable. Sin Estado de derecho no existe régimen democrático. Por ejemplo, los dirigentes golpistas hondureños anuncian que podrían “adelantar” elecciones para que un nuevo mandatario tenga el respaldo directo del voto ciudadano, pero ese voto lo controlarán instituciones o funcionarios que orquestadamente contribuyeron al golpe de Estado, de modo que, si lo desearan, podrían ignorar su resultado, falsearlo, u orquestarlo como un fraude antes de las urnas o durante los comicios o, incluso, como ya lo hicieron, después del resultado electoral. Los “engañados” en este fraude tendrían que recurrir a estos mismos golpistas civiles y militares para que sus reclamos fuesen escuchados. No resulta así, en estas condiciones, factible ‘legitimar’ los procesos electorales ni sus resultados (4). La razón es que en un Estado de derecho ningún ciudadano o institución está por encima de la ley y por ello no puede actuar arbitrariamente o con derecho prerrogativo y quedar impune. Nótese: puede actuar como se le ocurra, pero no debería quedar impune. Que quede sin sanción, y además se jacte pùblicamente de ello, es señal de que no existe Estado de Derecho.

    Ahora, constituye una polémica que en América Latina se den Estados de derecho. Las razones básicas son:

     a) el Estado está constituido y se expresa mediante una lógica patrimonialista o mercantilista. Esto quiere decir que está “secuestrado” por un grupo o grupos que lo utilizan para beneficiarse. No tiene, por tanto, como referencia un “Bien Común” o una ley básica y vinculante para todos, sino intereses particulares presentados, defendidos e impuestos como universalmente deseados;

     b) la lógica patrimonialista determina políticas públicas clientelares. Las ‘clientelas’ de los grupos que han secuestrado el Estado para su beneficio son económicas (grupos transnacionales y locales), políticas, ciudadanas, sociales y culturales. Estructuralmente, el carácter del poder de Estado, o sea su ejercicio, beneficia a minorías que determinan necesariamente “clientelas” de diverso tipo que acceden a granjerías estatales y gubernamentales en tanto clientelas privadas y no por su condición ciudadana. Las clientelas se gestan principalmente en relación con ‘buenos negocios’, adhesión electoral (cuando existen comicios ciudadanos) y social, y necesidades de reproducción del sistema (aparatos armados, poder judicial, iglesias, medios masivos, identificaciones inerciales).

 

     Un Estado oligárquico, patrimonialista y clientelista obviamente no es un Estado de derecho, cualesquiera sean su división formal de poderes, letra jurídica o la ‘transparencia’ de la vía electoral con que son “escogidas” sus autoridades.

    Este Estado oligárquico latinoamericano tiende a funcionar sin partidos políticos sólidos e ideológicos (no los requiere) y sin oposición explícitamente político-partidaria (las pugnas adquieren caracteres personalistas y siempre versan sobre intereses clientelares). Resulta de esta manera sumamente ‘receptivo’ a los poderes de facto económico/financieros y al de los medios masivos y ‘culturales’ (que crean o pervierten imagen social). Por ello este Estado (aparatos, legalidad y funcionarios) no puede atender significativamente, en el doble sentido de escuchar y asumir, las demandas de la ciudadanía y de los sectores sociales que se insertan desventajosamente en los diversos mercados clientelares. Cuando el Estado atiende demandas ciudadanas lo hace mediatizándolas a través de su reductivo prisma patrimonialista/clientelar.
     Un efectivo régimen democrático de gobierno demanda partidos permanentes y el debate político parlamentario entre aliados/oposición que incluye las tensiones y disputas ideológicas, ciudadanas y sociales también al interior de los aliados (en el Gobierno) y de los opositores. Del mismo modo, reclama la participación ciudadana y social responsable. La lógica de una institucionalidad democrática (inclusive la formal o procedimental, que es la usual en América Latina) se liga con el apoderamiento (potenciación) universal del principio de agencia (5).

    Ahora, en sociedad oligárquicas (con variados y muchas veces articulados principios de exclusión socio/cultural) el principio de agencia, o sea el apoderamiento básico universal de todos los individuos y sectores sociales, no es factible, por definición. Menos si se considera el carácter de la globalización capitalista actual bajo un esquema neoliberal que se jacta de producir ‘ganadores’ y ‘perdedores’ y responsabiliza a cada uno de ellos por su ‘suerte’. Agreguemos que en el esquema globalizador presente las latinoamericanas oligarquías locales y sus clientelas son actores secundarios de muy buenos, por globales, negocios. Al ser actores secundarios por su objetivo bajo peso relativo en un sistema mundial, la pugna por acceder a esos buenos negocios se agudiza en el seno de las oligarquías y de sus clientelas. Se puede constatar en la historia política reciente latinoamericana dos fenómenos partidarios ligados a esta pugna: la desaparición de los partidos ideológicos y su reemplazo por partidos electoralistas y pragmáticos. ‘Pragmáticos’ significa aquí básicamente que carecen de ideas distintivas sobre el statu quo, que “están en lo mismo” y se diferencian solo por sus intereses y ‘liderazgos’ privados. En Costa Rica, por ejemplo, se puede acceder a la presidencia del país sin realizar ningún debate público y sin atender para nada las necesidades ciudadanas y sociales. El carácter clientelar de la práctica política torna a estos ‘partidos’, cuando ganan las elecciones, en usufructuadores del erario público por medios ‘legales’ o delincuenciales. En ambos casos los protagonistas e instituciones que los acuerpan suelen quedar impunes y, sobre todo, sus ‘partidos’ pueden presentarse a la próxima elección con vigorosas promesas de acabar con la corrupción y venalidad reinantes (6).

    Las pugnas al interior de los grupos oligárquico/clientelares por ubicarse en posiciones ventajosas para los ‘buenos negocios’ también se muestran en los fenómenos de descomposición política que, en la transición entre siglos, al menos han abierto fisuras en su capacidad de dominio o que avisan su eventual decadencia final. Es el caso de Venezuela y Bolivia, países con liderazgos emergentes y movimientos ciudadanos y sociales de base popular activados permanentemente y, en menor medida, de Ecuador y México. La situación de este último país anuncia también el escenario de los Estados fallidos (7) o frustrados, que se presentan con particular claridad en Haití, Guatemala y Colombia y que constituyen un eventual destino para República Dominicana, Paraguay y Perú. Otros países presentan situaciones ambiguas, como Argentina, que no logra superar aún la herencia de la mafiosa sensibilidad menemista. En los países “estables”, como Chile, la descomposición toma la forma de la apatía ciudadana (especialmente entre los jóvenes), los estallidos de rebeldía social y el auge de un clientelismo cínico. Descomposición y eventual decadencia final de la dominación oligárquica tradicional en la región latinoamericana es el principal factor que potencia en el área, y para los intereses de la acumulación de capital, el retorno del tratamiento militar de los conflictos. El oscurantismo oligárquico (y también hasta hoy los poderes estadounidenses) se siente más a gusto con derechas duras, tecnócratas del libre mercado y ausencia de impuestos, militares represivos, control de los medios y piadosas iglesias… que con tibios Lulas, Bacheletes, Kirchners de cualquier sexo, Correas… y por, supuesto, experimenta repugnancia por los Hugos y Evos y por los Fideles que no terminan de morir o nunca mueren.

    El golpe de Estado en Honduras constituye entonces una experiencia-piloto de esta antigua y a la vez renovada estrategia de control geopolítico y político. Tienen plena razón los gobiernos civiles representados en la OEA (aunque no sean adecuados delegados de sus pueblos) de rechazarla con fiereza. Y tiene sus razones también la administración Obama de mostrarse ambigua ante el golpe de Estado en Honduras.

    3.- El monitoreo de ‘las’ democracias latinoamericanas y caribeñas

    El ‘monitoreo’ (del inglés, donde tiene las connotaciones de ‘detección’ y ‘control’) de las instituciones democráticas, en particular de las latinoamericanas, forma parte de una fase de exaltación de ‘la’ democracia occidental y capitalista tras la derrota de las sociedades del socialismo histórico entre las décadas del ochenta y noventa del siglo pasado. Alcanzaron rango de “moda” con la actividad del Centro Carter en las elecciones nicaragüenses de 1990. Focalizadas inicialmente en el día de las elecciones (y no en el proceso electoral y sus condiciones) han ampliado su rango de observación (a financiamiento partidario y libertad de prensa, por ejemplo) y se han dado un carácter permanente de modo que hoy constituyen fuentes de ingreso para numerosas ONGs e institutos.

    En América Latina el ‘monitoreo’ inicialmente se inscribió en la sensibilidad del Consenso de Washington. Los gobiernos civiles del área parecían estar de acuerdo en la primera mitad de la década de los noventa en que ‘la’ democracia era la forma de gobierno propia y continua para la mundialización de la forma mercancía, el libre flujo comercial, la desregulación, la privatización, la estabilidad macroeconómica, la captación de inversión directa extranjera y el crecimiento sostenido. Se habían acabado para siempre tanto las revoluciones como los golpes militares. De modo que a ‘monitorear’ y a felicitarse. O a ‘monitorear’ y manipular la opinión ciudadana como aconsejaba el Banco Mundial. El régimen era eterno.

    La eternidad fue breve. Uno de sus principales instrumentos, el Área de Libre Comercio de las Américas, propuesto en 1994, fue enterrado sin honores en el 2005. Pero, más importante para el tema democrático, en la transición entre siglos (1998) aparecía en Venezuela una experiencia política, vehiculizada por un Polo Patriótico, que ganó las elecciones y convocó a redactar una nueva Constitución que fue aprobada en 1999. En esta constitución, que se suponía debía permitir avanzar hacia un nuevo socialismo, se hablaba de instituciones y lógicas democráticas participativas. En el artículo 7 de su capítulo ‘Democracia y Derechos Humanos’, la constitución venezolana establece: “La democracia como sistema político representativo y participativo es condición insustituible para el goce pleno y efectivo, por parte de las personas y las sociedades, de los derechos humanos, la justicia social y las libertades esenciales para el desarrollo de la personalidad y el progreso de los pueblos”.

    Aunque el texto era claro, en el sentido de que democracia representativa y democracia participativa ni se oponían ni excluían mutuamente, círculos latinoamericanos quisieron leer que así como el proyecto bolivariano de Venezuela despertaba resistencias y sospechas, su ‘democracia participativa’ enfrentaba a la democracia representativa o procedimental o formal, y era un nuevo disfraz para la dictadura. La felicidad ‘eterna’ y pragmática abrió paso de esta manera a una disputa ideológica que enfrentaba al ejercicio delegativo de las instituciones democráticas, su ejercicio representativo y su ejercicio participativo. El primero y segundo ejercicios coinciden en la electividad de los dirigentes pero, para la sensibilidad delegativa, el acto civil de elegir va acompañado de la renuncia ciudadana al control político. Para la sensibilidad representativa, el gobierno debe ser transparente y rendir cuenta institucional de sus acciones. En la sensibilidad participativa, los ciudadanos pueden y deben tener injerencia en las decisiones políticas en cualquier nivel (municipal y nacional, por ejemplo) y la calidad de su participación ciudadana se abre a un indispensable contenido social marcado por oportunidades no discriminatorias en el acceso a los servicios públicos, ocasiones de trabajo, seguridad social y satisfacción de necesidades básicas. La sensibilidad democrática participativa se vincula así con el carácter integral de derechos humanos a los que vincula con organización social, el principio de no discriminación y la justicia social sin negar por ello la individuación de las personas.

    Lógica democrática delegativa, representativa y participativa pueden leerse en un eje que va desde lo más oligárquico (régimen de minorías clientelares y tecnocráticas) a lo más popular (régimen que descansa en la universalidad del principio de agencia humana (social y personal) y su papel en la constitución y reproducción del ordenamiento social), y también en un eje que va desde lo más favorable a la globalización capitalista bajo hegemonía transnacional a lo más favorable para la satisfacción de las necesidades básicas de las poblaciones humanas y el respeto por el medio.

    La administración Bush concentró su atención en el último eje, que combina geopolítica y buenos negocios, y propuso en  la 35ª Asamblea Anual de la OEA (junio 2005, Florida) controlar mediante “expertos” y sectores de la ‘sociedad civil’ (léase empresarios) el funcionamiento “democrático” de las sociedades latinoamericanas para incidir en su “corrección”. Los dardos estaban dirigidos por motivos diversos principal pero no exclusivamente contra el gobierno de Venezuela y el que parecía emerger, y emergería, en Bolivia. Curiosamente, la iniciativa estadounidense fue respaldada por el actual Secretario de la OEA, José Miguel Insulza. La propuesta de Bush fue descartada enteramente, por injerencista, y desde entonces los valores de las instituciones democráticas participativas pugnan por ser incorporados a la Carta Democrática Interamericana (2001).

    El golpe del 2009 contra el gobierno de Honduras puede ser entendido como un “monitoreo extremo”, desde la perspectiva estadounidense (clara en la administración Bush, ambigua en la de Obama), del régimen institucional hondureño y latinoamericano. Todos los comentarios de la caverna latinoamericana leen la acción contra Zelaya como un golpe (que ellos esperan decisivo) contra la experiencia venezolana y, por extensión, pese a sus diferencias, contra los procesos boliviano y ecuatoriano. Así, por ejemplo, un ‘analista’ (en verdad publicista) de origen costarricense, pero que reside en Estados Unidos y es Director del Centro de Estudios Latinoamericanos del Hudson Institute en Washington, J. Daremblum, escribe a propósito del conflicto hondureño pero desde la perspectiva del “monitoreo” de las insuficientes o negativas instituciones democráticas latinoamericanas:

     a) sobre la OEA: es “urgente la tarea de pensar cómo recuperar a la OEA del foso cavado con sus terribles desaciertos, y lograr que vuelva a ser capaz de acciones relevantes”. Debe leerse, hay que incorporar el monitoreo de Bush/Condoleezza rechazado en el 2005;

     b) sobre la ‘mediación’ del Gobierno de Costa Rica: “Con los esfuerzos de la mediación encomendada al presidente costarricense Óscar Arias (…) empieza a retornar la sensatez y se enmienda una pifia monumental;

     c) sobre la resolución de la OEA de restituir al presidente Zelaya: “ (…) errática conducción del secretario general, José Miguel Insulza, y el evidente influjo de mayorías automáticas con una agenda ideologizada y sin ninguna relación con los principios básicos del Sistema Interamericano”;

     d) sobre la restitución de Zelaya o el reconocimiento de Micheletti: “(exigir) el retorno sin condiciones de Zelaya es una “solución” tan poco realista como insistir en que la única solución sería que Zelaya no vuelva y punto (…) También obliga el realismo político a reconocer que Roberto Micheletti tampoco podría operar efectivamente”;

     e) sobre quiénes deben administrar la resolución del conflicto: “Es muy satisfactorio (…) que, por fin, el proceso lo estén conduciendo verdaderas democracias”. Por ‘verdaderas democracias’ menciona a Canadá y Costa Rica. Queda a la espera Estados Unidos;

     f) sobre el gobierno venezolano: “(…) reina la duda de si a Hugo Chávez le conviene un arreglo, dado su interés y protagonismo en atizar un conflicto que mantiene ocupada a la región –y a Estados Unidos- lejos de Venezuela, donde en estos momentos se fragua un nuevo asalto del régimen a los medios de comunicación”…;

     g) sobre algunos de los gobiernos latinoamericanos que participan en la OEA: “ aquellos que hace apenas un mes se mofaban de la Cláusula Democrática y que no han mostrado respeto alguno a los verdaderos principios democráticos” (8).

    La prospección acerca de ‘la verdad’ de la única democracia pertenece en exclusiva a los gobiernos verdaderamente democráticos y el punto exige, además, una transformación básica de la OEA. Daremblum condensa la posición del Departamento de Estado sobre esta cuestión de fondo. ‘La’ democracia obviamente es cualquiera que, con referente electoral, maximice la acumulación global de capital (para América Latina, las oligárquico-tecnócratas/dependientes/restrictivas).

    Sobre la específica situación hondureña, Daremblum es despreciativo: no es realista devolverle la presidencia a Zelaya ni tampoco entregársela a Micheletti. Cuando escribe ‘realista’ está usando un adjetivo que se relaciona con relaciones efectivas de poder. Ni Zelaya ni Micheletti tienen suficiente poder (control) en y sobre Honduras. Debe transferirse el poder jurídico para decidir sobre Honduras a quienes detentan el poder regional: los Estados verdaderamente democráticos y las transnacionales que personifican el poder de la acumulación de capital. Cualquier otra salida es “pifia monumental”, “absurdo”, “agenda ideologizada”, “posiciones reduccionistas”, “terrible desacierto”.
     No está demás enfatizar que el posicionamiento de Daremblum escamotea que en Honduras se dio un golpe de Estado y que la Carta Democrática Interamericana obliga a su Asamblea General, desde el año 2001, a proceder como lo hizo y sigue haciendo. Si se atiende al daremblumiano “realismo político”, la OEA debería cerrarse (es ocasionalmente la opinión de Cuba) y dejarse las relaciones internacionales hemisféricas sujetas a la sensibilidad descrita por el texto del guatemalteco Juan José Arévalo: “La fábula del tiburón y las sardinas”, pero en su versión material que equivale a una indisimulada ley del garrote practicada en nombre de los altos valores de la civilización, la paz y el bienestar de los pueblos. El ‘monitoreo’ consiste entonces, en injerencia y garrote a todo lo que se oponga, o se sospeche podría oponerse, a los ‘buenos negocios’.

    4.- El recurso de las mediaciones diplomáticas

    Ya se indicó que desde el punto de vista de los intereses estratégicos, a los que poco importa la población centroamericana, en el conflicto hondureño no resulta ‘realista’ estimar que existan actores latinoamericanos (excepto los que asumen 190% la lógica del capital global y su geopolítica) ni fuerzas hondureñas que puedan solucionarlo. El ‘realismo’ político indica que las soluciones vendrán de afuera, de las “verdaderas democracias”. Honduras, por supuesto, nunca ha sido una verdadera democracia.
     El punto puede ser leído desde un ángulo distinto. En efecto, en Honduras no existe una “verdadera” democracia. Tampoco en el resto de América Latina. Y tampoco en Estados Unidos de América. De modo que los conflictos deberían resolverse a patadas (es la salida oligárquica en Honduras, y uno de los procedimientos de los opositores al gobierno boliviano. También fue la “solución” Bush/empresarial venezolana al desafío de la joven República Bolivariana de Venezuela en el 2002) o recurriendo a extraterrestres. Es probable que éstos últimos no aceptasen el encargo porque, al venir de civilizaciones sensatas, no aceptarían que existan ‘verdaderas democracias’.

    Lo que existe en Honduras son instituciones de un Estado de derecho e instituciones de un régimen de gobierno democrático que funcionan circunstancialmente (y, para la gente, azarosamente) mejor o peor porque su referente de totalidad (sistémico) es una dominación oligárquica dependiente de la acumulación global de capital. Visto así no existe nunca ninguna salida hondureña ni para la crisis ni para eventuales situaciones de estabilidad  porque el único actor que podría impulsarla, el movimiento social popular, ha sido históricamente desagregado, reprimido, asesinados sus dirigentes, anatematizadas sus organizaciones, etc. La ‘salida’ hondureña pasa entonces por transferir poder a estos sectores populares. O, mejor, que estos sectores se lo autotransfieran. Pero ese punto no está en agenda aunque sí figure en la retórica del presidente Zelaya. Este es uno de los alcances de la afirmación de que el golpe de Estado no es ‘el’ problema de Honduras, sino señal de sus muchos problemas sistémicos. Y en ellos Honduras no está solo en América Latina.

    Si se considera de esta manera, la ‘mediación’ resulta o un espejismo o un truco geopolítico. Es en parte ambos, pero solo nos referiremos, y esquemáticamente, al segundo carácter.
     La mediación que Estados Unidos le encomendó al presidente Arias (Costa Rica) tiene como objetivo agrietar y descalificar a la actual Asamblea General de la OEA (que Estados Unidos no puede hoy manejar unilateralmente) y a su Secretaría General ignorando o soslayando la exigencia de esa asamblea de restituir de inmediato al presidente Zelaya en su cargo. Esta demanda no es arbitraria puesto que se sigue de la Carta Democrática Interamericana y ella es vinculante para todos los Estados miembros y, desde luego, para su Secretaría. Solo que cuando se aprobó esta Carta se estimaba que el Consenso de Washington (y las condiciones internas de los países latinoamericanos) haría de todos los gobiernos del área y de sus poblaciones “yes men” y que, por tanto, no serían necesarios los golpes de fuerza. Cálculo equivocado. En el 2009 existen yes men, sin duda, pero también gobiernos y poblaciones con voluntad de autonomía (relativa, como todas las cosas humanas). Y los yes men han descubierto que existen diferencias entre ellos. Y además hay derechas nostálgicas de los buenos tiempos dictatoriales abiertos o encubiertos. Las poblaciones con voluntad de autonomía probablemente no desaparezcan nunca, excepto que se las aniquile biológicamente. Y es un buen deseo civilizatorio que las derechas cavernarias latinoamericanas y los yes men alguna vez se conviertan a sus sociedades y a la humanidad.

    Puede que la Carta de la OEA resulte poco realista. Pero es que se imaginó en los términos de una eterna paz imperial, sin oposiciones ideológicas y con yes men fraternos y armoniosos.
     La ‘mediación’ solicitada por Estados Unidos funciona tornando simétricas a  las partes. “Zelaya idéntico rango político que Micheletti”. Esto quiere decir que se ignora que los vincula un golpe de Estado. Este golpe los torna cualitativamente diferentes radicales. Uno es un presidente legal (aunque las instituciones hondureñas sean un simulacro) y el otro un golpista. Cuando se los torna “iguales” ante la ley o en el trato, se pronuncia uno de partida a favor del golpista. Sin duda Zelaya y Micheletti son iguales abstractamente en tanto seres humanos, pero no lo son políticamente porque uno tiene fuerzas armadas golpistas sosteniéndolo y el otro las tiene en su contra y, además, no estimula una salida político-militar de la situación. La caverna dirá que tras Zelaya está el ejército venezolano, pero eso no se lo cree (ni lo escribe) Daremblum. Significativamente, la mediación costarricense no contempla dialogar con los aparatos armados hondureños. Es como si no formaran parte del golpe. La mediación los invisibiliza… excepto para la Asamblea General de la OEA. Sin el apoyo de los aparatos militares como institución no se habría dado un golpe de Estado en Honduras. Sin estos aparatos se puede asesinar a Zelaya y a sus cercanos, intentar una asonada,  pronunciarse en los púlpitos, etc.…, pero no se puede dar un golpe de Estado. La OEA no invisibiliza o silencia este factor capital como sí lo hace la ‘mediación’ sugerida por Estados Unidos y ‘protagonizada’ por Costa Rica. Por supuesto, también para la OEA el ‘pueblo’ hondureño es solo una abstracción (“recurso humano”, por decir algo).

    La mediación probablemente busca que Zelaya y Micheletti declaren un acuerdo formal, previa promesa de una millonaria compensación secreta por “gastos”, “ayuda” multilateral (no muy abundante) y ausencia de represalias. Después de todo, se trata de actores de la oligarquía hondureña. Políticos “bananeros”, digamos. Para políticos bananeros, mediación bananera. Y la única lesionada sería la OEA y la dignidad hemisférica que, en verdad importa a pocos (fuera del área nadie cree en ella, tampoco).

    El principal medio impreso, por tiraje y circulación, de Costa Rica, La Nación, condensa de manera magistral el truco de la mediación expuesta en la primera sección de este apartado. En su portada del 10 de julio, el mismo día que encargó para su página de opinión el texto de Daremblum arriba expuesto, publica a todo lo ancho y bajo título enorme tres fotograbados del mismo tamaño: a la izquierda del lector, Zelaya, a la derecha, Micheletti, al centro el presidente Arias. Zelaya y Micheletti parecen haberse puesto de acuerdo para casi uniformarse. Vestido entero oscuro semejante, corbata roja, camisa blanca, insignias vistosas en la solapa. Arias al centro, se diferencia por el color de la corbata, celeste o verdosa, y porque su fisonomía no es tan nítidamente oligárquica. El gran titular completa el truco: “PRESIDENTES HONDUREÑOS REHÚYEN DIÁLOGO DIRECTO”. Misma gestualidad, misma ropa, mismos ambos “presidentes”. Pero por algún motivo, los dos ‘Presidentes de Honduras’ (¡!) no dialogan, no se acercan. Como concluye Daremblum en la página de opinión, ‘ninguno puede quedar como presidente’. Es palabra del imperio. Del sistema. No existen ‘dos’ presidentes. En realidad, no existe ninguno. No se trata de una mediación política, sino de un pequeño negocio.

    Un vínculo breve. Desde la última parte del siglo pasado los periódicos impresos y televisados vienen “cargando” o produciendo las páginas de información periodística como si fueran complemento, introducción o remate de sus páginas de opinión. No pareciera apropiado para el lector. Las páginas de opinión, en sociedades con dominación oligárquica/transnacional, suelen expresar los posicionamientos, argumentos e invectivas de los propietarios de los medios y del sector empresarial, local y transnacional, en sentido amplio. El periódico queda así orquestado para manipular a los lectores y, a través de ellos, a la opinión pública. En este caso se trata de un tema político/ideológico e institucional al que se falsea. En otros, de vender temores o de buscar adhesiones a estilos de existencia. Los gacetilleros, o sea los periodistas profesionales, empleados de las empresas, se prestan o someten a esta orquestación por razones variadas, algunas tristes, pero el resultado es el mismo: traicionan la ética básica del informador o comunicador. Lo que se dice de los medios latinoamericanos puede afirmarse también de CNN.

    En relación con este fenómeno ‘periodístico’ se experimenta una sensación de monopolio asfixiante, apenas trizada por Internet (todavía sin censura explícita). Digámoslo con un lema: la lógica de acumulación global de capital viene mostrando su incompatibilidad con los derechos de la población a estar adecuadamente informada, su desprecio sistémico por derechos humanos y un desempeño tendencialmente totalitario. Muchos deberíamos advertirlo, denunciarlo y transformarlo. La información/comunicación social no puede consistir solo ni principalmente en la difusión masiva y saturante del estilo de existencia mercantil ni en las groseras ‘verdades’ de sus empresarios y políticos, muchas veces los mismos. Para este rubro falseador ya existe la propaganda comercial por la cual los medios pasan factura y que el consumidor, mejor o peor, puede discernir en su exagerada unilateralidad de ‘propaganda’.

    5.- Las iglesias, los posicionamientos políticos y la experiencia de fe religiosa en América Latina y el Caribe

    El punto anterior, el del periodismo profesional orquestado por intereses empresariales con tendencia a un saturante monopolio, se inscribe en el asunto de la producción social de subjetividades y se vincula con la ratificación/rechazo de identificaciones inerciales (proporcionadas por el statu quo), ambas cuestiones ligadas con la potenciación o debilitamiento del principio de agencia. Esto quiere decir con la capacidad de los individuos y grupos sociales para producir su autonomía, crear contextos de opción, discernir entre ellos y elegir haciéndose responsable de la escogencia y de sus alcances. En el mismo proceso subjetivo y existencial, los individuos y sectores van creando su capacidad sujetiva, o sea su apoderamiento para comportarse como sujetos activos/responsables en circunstancias que no controlan enteramente y para encontrar gratificación humana en ello.

    Los procesos anteriores se relacionan, todavía con más fuerza, con la realidad e incidencia social, y ‘político-cultural’ de los aparatos clericales en América Latina, en especial el católico (que es el de mayor alcance), pero que también comprende a muchas iglesias ‘cristianas’ protestantes. Estos aparatos clericales, en mayor medida que los medios ‘periodísticos’, han jugado tendencialmente un papel político conservador y reaccionario en el subcontinente. Se hacen factor y parte del dominio cultural oligárquico, señorial y antipopular que constituye la sensibilidad dominante en el área. Lo menos que podría decirse de la constatación de esta tendencia, que aspira a no admitir réplica, es que ella no tiene inspiración evangélica.

    Los aparatos clericales latinoamericanos nutren básicamente a la dominación cultural (y a las subjetividades que le son necesarias) desde un determinado posicionamiento de la vivencia de fe religiosa: el sometimiento (social y personal) a la voluntad de un Dios todopoderoso que se encarna en el sistema de dominación y que prueba la fe del creyente por medio de dos mecanismos: la resignación ante el sufrimiento en este “valle de lágrimas”, en la relación laboral, de pareja o generacional, por citar tres factores inmediatos de desdicha, y la certeza de la salvación (y la felicidad) en un Reino metafísico, situado más allá de la muerte, salvación que se seguirá o de la fiel observación de ritos, o de una fe blindada a la desesperanza, o de la misericordia divina. El posicionamiento metafìsico y teleológico, contiene el desprecio o lástima por el cuerpo y el desprecio o lástima o relegación de lo social (más acá o allá de instancias ‘naturales’, como la familia, o ‘sagradas’ como la comunidad (¿?) clerical).

    A este posicionamiento que rebaja la dignidad sociohistórica de la existencia humana al sujecionarla al temor/esperanza (y la ‘seguridad’) que deben ofrecerse unilateralmente a un Absoluto indescifrable aquí en la historia, aunque mediado y entrevisto por la autoridad clerical o la falsa comunidad de fieles, corresponde un tratamiento del ser humano como creatura/criatura, siempre menor de edad, oveja, objeto social y no sujeto… excepto para un Salvador y una Salvación que suponen y demandan una inquebrantable sujeción al orden social y a sus autoridades: padres, terratenientes, curas, pastores, maestros, policía, Estado, militares, capital. The Matrix, en fin.
     El mensaje culmina: obedecer es la paz o la asegura aquí en la tierra. El Cielo pertenece a los pacíficos. El Infierno a los soberbios que resisten al autoritarismo arbitrario y protestan, se organizan y se levantan contra él.

    El aporte clerical resulta de esta manera, aquí apenas bosquejada, decisivo para  la creación de identificaciones inerciales, individuales y sociales, de sujeción y sometimiento. Este ‘aporte’ es introyectado por las gentes quienes lo llevan  en su corazón y vísceras. Su sensibilidad y mensaje forman parte constitutiva de la cultura oligárquico de dominación excluyente y de su señorial estratificación de autoridades. No es casual ni circunstancial. Opera a nivel de identificación “espiritual” porque se bebe en los núcleos familiares, en la escuela, en las relaciones de pareja, en el mercado y en los templos, y en la existencia cotidiana. Nutre como parte de su lógica a instituciones fetichizadas (patriarcales, autoritarias, adultocentradas) y se vive como una forma ‘natural’ de estar en el mundo. Se trata de un dispositivo que busca que la gente no huela la sangre derramada ni se manche con ella, justifique las humillaciones arbitrarias, acepte la tortura, crezca en el desamparo, sonría con la burla, oculte su dolor. Es un dispositivo obsceno en su ferocidad antisocial y antihumana.

    Se le disimula, desde luego, con autoridad incontestable, con limosnas, con falsa caridad hacia individuos (falsa porque insiste en ignorar las tramas sociales que producen a esos individuos dolientes y falsa también porque el status de autoridad en un orden radicalmente injusto no admite la caridad sincera. O se es autoridad o se es caritativo). A la maldad social se asocia la hipocresía, el hipostasiado repertorio de solemnes gestos, tradiciones vacías y discursos falsos.

    Existen excepciones en este mundo clerical, y son valientes, tesoneras y bellas, pero no poseen peso estadístico y la ya larga historia latinoamericana muestra que estas excepciones no han tenido capacidad ni para incidir socialmente ni para convertir al evangelio a las iglesias a las que pertenecen. En el reciente caso hondureño, y dentro de las excepciones, resalta la declaración sobre el golpe de Estado del Consejo Diocesano Pastoral de Santa Rosa de Copán. Ella desautoriza completamente, desde su fe cristiana, a los obispos que potenciaron y respaldaron el golpe, pero al mismo tiempo lo niegan al suscribir la tesis oficial golpista de que la expulsión y remoción de Zelaya fue enteramente constitucional. En letras de la Conferencia Episcopal: “Todos y cada uno de los documentos que han llegado a nuestras manos, demuestran que las instituciones del Estado democrático hondureño, están en vigencia y que sus ejecutorias en materia jurídico-legal han sido apegadas a derecho.- Los tres poderes del Estado, Ejecutivo, Legislativo y Judicial, están en vigor legal y democrático de acuerdo a la Constitución de la República de Honduras” (9).

 

     Anticipándose y en serena oposición, el Consejo Diocesano de Santa Rosa de Copán afirma que el pueblo hondureño vive un golpe de Estado.

    El Consejo Diocesano rechaza este golpe y denuncia su causa y consecuencias. Ven el factor causal en la “inequidad social” en que siempre ha vivido Honduras (10). Entre las consecuencias resaltan: el clima de inseguridad en que viven las familias, la limitación de las garantías constitucionales (libertad de circulación, libertad de asociación y manifestación, inviolabilidad del domicilio, derecho a la propiedad privada, libertad de prensa y difusión de ideas y opiniones, libertad personal afectada por detenciones arbitrarias). Desde este panorama, prevén una violación masiva de derechos humanos. Interpelan a las Fuerzas Armadas con el quinto mandamiento: “No matarás”. Lo extienden a los golpes, y a toda vejación al ser humano “creado a imagen y semejanza de Dios y que es Templo del Espíritu Santo”.

    No quieren más mentiras. No quieren más injusticias. No quieren más represión. Quieren que se respete la integridad de las personas y sus derechos humanos. Desean vivir en libertad y paz. Oran por ellas.

    Además de su valentía en un país ocupado por aparatos militares y saturado de un espeso odio contra quienes disienten del golpe, interesa destacar de esta declaración diocesana su posicionamiento imaginario y social desde su fe religiosa, posicionamiento básico enteramente distinto al de la Conferencia Episcopal. Para la declaración diocesana, el golpe es una señal de la inequidad social que históricamente ha padecido Honduras. No se trata ‘solo’ de una pugna politicista o de cuestiones jurídicas. La histórica inequidad social es matriz de violencias y resentimientos. El golpe, y la crisis que provoca, son afloraciones de estas violencias y resentimientos. La matriz de inequidad lesiona íntimamente el espíritu cristiano evangélico porque impide la existencia comunitaria efectiva, incluso al interior de las iglesias, bloquea la posibilidad de producir la paz, antes, durante y después del golpe. No se superará mediante artificios constitucionales o mediaciones entre oligarcas, sino resolviendo la raíz de la inequidad social. En nuestro lenguaje, superando la dominación oligárquica. La declaración de la diócesis estima que esto puede lograrse mediante vías parlamentarias o de diálogo y consenso.
Al enfoque social estructural, o sociohistórico, corresponde en la declaración diocesana una antropología integradora que no escinde al ser humano en cuerpo y alma. El cuerpo no es “cárcel del alma” y “ocasión de tentación concupiscente”, como en la versión católica espiritualizada tradicional, sino “Templo del Espíritu Santo”, hogar de la vida eterna: el cuerpo mortal anuncia la resurrección, posee dignidad propia y escatológica. Que el cuerpo viva y se gratifique es el deseo de Dios, un anuncio de la verdad del Reino.

    Esto lo escribe y proclama un circuito diocesano en el clima de un golpe de Estado. Es una manera de asumir y testimoniar su creencia religiosa en el marco de una crisis que reprime, golpea y mata cuerpos y espiritualidades, represión a la que política y culturalmente apoya, aunque lo haga de una forma oblicua, la Conferencia Episcopal.

    No existe una sola manera de experimentar socialmente la fe religiosa. Santa Rosa de Copán desestima que la declaración de la Conferencia Episcopal de Honduras, publicitada por un Cardenal, sea ‘la’ verdad católica y cristiana. El sencillo documento de Santa Rosa de Copán porta otra sensibilidad que lleva a declarar y testimoniar otra verdad, la que se desprende (y nutre) de la sociohistoria y desde los cuerpos humanos y de los trabajos e instituciones que los construyen/producen. El documento pone de manifiesto su respeto por  dignidades que no son las de la institución católica oficial o dominante. El ‘cristianismo’ que ofrece ‘seguridad en otro mundo’ si uno obedece sin reclamos a quien golpea, humilla, explota y mata.

    Sinteticemos el aprendizaje ofrecido al diálogo por esta declaración diocesana: no es necesario odiar a la iglesia, ni cancelarla, para imaginar y sentir que otro cristianismo es posible y necesario en América Latina. Empezando por Santa Rosa de Copán, Honduras.
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    Notas:

      (1) Juan Fernando Lara (periodista): “Las dos caras de la crisis política” (“Se portaba como un usurpador”) en La Nación (periódico), p. 30A, 06/07/09, San José de Costa Rica, énfasis nuestro.
       (2) Juan Fernando Lara (periodista): “Las dos caras de la crisis política” (“Zelaya se fraguó odios poderosos”) en La Nación (periódico), p. 31A, 06/07/09, San José de Costa Rica.  
       (3) El Estado es un aparato de poder social (relaciones sociales e instituciones) cuya práctica compleja comprende el monopolio de la coacción, el monopolio de las políticas públicas y el monopolio de la producción general de identificaciones inerciales (sociales y ‘nacionales’). Funciona mediante un amplio aparato burocrático sostenido por la ‘legalidad’. Sus tareas básicas son reproducir complejamente el ‘orden social’ bajo la forma del continuo de un territorio y población ‘nacionales’ y detectar y castigar las prácticas sociales que radicalmente alteren o podrían alterar este continuo.
       (4) Un ejemplo claro de esta situación se dio en México donde la estrechísima elección del actual presidente Felipe Calderón (2006) mostró claras y abiertas posibilidades de fraude material. Pero no existen en México instituciones a las que se pueda recurrir para solicitar una investigación independiente y una sanción vinculante. No es el sufragio sino el sistema el que decide quien gana. Y es el mismo sistema el que se pronuncia sobre un fraude eventual.
      (5) El principio de agencia humana tiene origen liberal pero es susceptible de una crítica social que le otorga sentido dentro de los emprendimientos colectivos de producción de humanidad plural.
      (6) La corrupción del ámbito político hace referencia a los procesos que descomponen sus funciones y metas explícitas hacia el conjunto de la comunidad. Esta corrupción puede ir o no acompañada de comportamientos venales por parte de los funcionarios públicos de todo nivel, comenzando por presidentes, magistrados y parlamentarios. Usualmente el comportamiento venal configura delitos que pueden ser reclamados en los tribunales. Luego corrupción y venalidad políticas no son idénticas aunque la primera potencia a la segunda.
      (7) “Estados fallidos” es una noción politicista creada en Estados Unidos para designar una institucionalidad incapaz de garantizar su viabilidad y gobernabilidad. Tiene la función práctica de promover y practicar en ellos “intervenciones” que aseguren esa gobernabilidad (o sea los intereses de la acumulación de capital). Visto en términos populares y civilizatorios, el gran Estado fallido es Estados Unidos, la cabeza armada del mundo occidental. Por desgracia, no existe en el mundo todavía capacidad para “intervenirlo” y crear las condiciones para que su población y sus instituciones contribuyan a la ‘autogobernabilidad’ de todo el planeta.
       (8) J. Daremblum: “El autogol de la OEA”, en La Nación (periódico), 10/07/09, San José de Costa Rica, énfasis nuestros.
       (9) Comunicado de la Conferencia Episcopal de Honduras: “Edificar desde la Crisis”, Tegucigalpa, MDC 3 de julio de 2009, énfasis nuestro.
      (10) Mensaje de la Diócesis de Santa Rosa de Copán, Santa Rosa de Copán, Honduras, 01/07/2009.

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( Fonte: www.heliogallardo-americalatina.info )